
Teatro Cantiere – Semi e fratture, sulla scia di Grotowski
L’atto politico di Teatro Cantiere risiede nella sua stessa esistenza. Un teatro che sceglie di non sottostare a tempistiche, regole di mercato o di produzione, che mette l’individuo e il suo percorso di crescita al centro di tutto è esso stesso forza politica. Non la politica delle parole, non la politica del conflitto con l’esterno, ma la politica del seminatore paziente, la politica della cura.
Teatro Cantiere è un luogo gentile e potente, chiunque vi capiti deve fare i conti con gli inviti a rimanere per cena e, in un attimo, anche a dormire o a fermarsi di più. Si trova a fare i conti con la cortesia con cui viene trattato,
la fiducia che gli viene data, che sia la prima o l’ennesima volta che si trova lì.
Teatro Cantiere è un gruppo di ricerca teatrale ispirato alla metodologia di Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba. Nasce nel 2003 per mano di Sara Pirotto ed Hengel Tappa nel Centro Culturale Cantiere Sanbernardo di Pisa. Dal 2016 è associazione culturale e dal 2018 la sua sede è a Piana Crixia, un paesino di poche anime sopra Savona.

Non solo un’associazione, ma anche una compagnia teatrale, uno spazio comune e uno stile di vita condiviso. Il metodo di ricerca ruota intorno alla presa di coscienza scioccante della propria carnalità: si parte dallo scavo nel mondo interiore più profondo per poi procedere alla scoperta delle proprie potenzialità come artisti. Accanto a tutto questo si attua un’altra ricerca più silenziosa, ma altrettanto fondamentale, che è quella della crescita personale della persona come individuo autonomo e completo, tramite la gestione degli spazi e dei ritmi comuni nella casa di Piana Crixia: «Non riesco ad immaginare un attore che non sappia cucinarsi un piatto» sostiene Hengel.
La scintilla che dà vita a tutto divampa nel 2002, in Danimarca, dopo la visione da parte di Sara ed Hengel di uno spettacolo dell’Odin Teatret di Eugenio Barba. L’evento è per entrambi rivelatorio. Una performance così lontana dalla “recita” e così reale li spinge a interrogarsi più a fondo sulla direzione della loro ricerca artistica e parallelamente delle loro vite. Si trovano di fronte a una messa in scena che li raggiunge intimamente, facendogli prendere coscienza di necessità inespresse e potenzialità sopite, del conseguente desiderio di ricerca.
Una volta tornati in Italia iniziano così un percorso di formazione e decidono di fondare un loro teatro. Per diversi anni tengono alcuni corsi, fino al 2018, quando sentono il bisogno di diventare professionisti e di dedicare la vita a coltivare il teatro e tutto ciò che ne fa parte. Tornano così alle origini, nella casa del nonno di Hengel, in Liguria, a Piana Crixia che diventa il loro ombelico del mondo, luogo dove le persone affamate di arte possono trovarsi a proprio agio.

Ogni spettacolo nasce dalle necessità degli attori che sono al tempo stesso registi tecnici e scenografi, la costruzione della peformance va di pari passo con la ricerca interiore e la sua rappresentazione, per questo motivo si parte dall’improvvisazione.
I laboratori sono alla base del lavoro teatrale, allenamenti volti a preparare un terreno sgombro da cui partire nella costruzione dello spettacolo: destrutturare per ristrutturare. I tempi del laboratorio sono interamente dedicati ai bisogni dell’individuo.
Destrutturare significa imparare a farsi guidare dal proprio io più profondo, animale e divino, liberarsi dai freni e dalle inibizioni cui la nostra mente è stata abituata per tutta la vita. Destrutturare è imparare a muoversi, a danzare, magari al suono di un tamburello o una chitarra, con movimenti nuovi e liberi, lasciando che qualcosa di profondo e segreto fluisca all’esterno e che il nostro corpo ne sia il tramite, lo strumento primo di comunicazione. Man mano che si procede in questa conoscenza si struttura lo spettacolo, si capisce cosa si ha da condividere e cosa si vuole condividere. In questo modo si ha la garanzia di rappresentare la realtà. In questo modo si può dire autentico uno spettacolo che nasce dal bisogno, si sviluppa con la ricerca e si conclude con la condivisione, condivisione sentita, anch’essa una necessità.

Una tecnica molto usata dagli attori di Teatro Cantiere è la Glossolalia, un’antica tecnica vocale che consiste nel liberare la voce in un flusso di suoni disarticolati. Simile al Grammelot con la differenza che non imita niente, è qualcosa di totalmente libero che si affina ma non si impara. È spesso utilizzata durante gli allenamenti di destrutturazione o nella preparazione degli spettacoli, anche come base su cui fondare un testo. Pur non trattandosi di un teatro d’improvvisazione, infatti, non c’è mai un copione e raramente un testo. L’assenza di regole grammaticali la rende una lingua universale, caratteristica che permette di portare gli spettacoli in tutto il mondo.
In un universo teatrale in cui il laboratorio ha tanto spazio, non perde comunque la sua estrema importanza il momento dello spettacolo e di conseguenza il rapporto con il pubblico. Gli spettacoli della compagnia vengono descritti come momenti di condivisione più che di dimostrazione. Il pubblico è spesso poco numeroso, quindi si è molto vicini. L’obbiettivo è quello di lasciare dei semi nello spettatore, instillare dei dubbi che potrebbero portare a delle fratture, a dei piccoli risvegli. Non è previsto un particolare target di pubblico: tanto è di nicchia il loro metodo di ricerca, quanto universali i lavori che portano in scena, in una bilanciata via di mezzo tra volgare e colto.
Pur non portando mai in scena un teatro dalle tematiche dichiaratamente politiche l’atto teatrale in sé incarna il desiderio di fare politica dal basso. Colui che costruisce lo spettacolo porta in scena un punto di vista suo personale riguardo alla società, è portavoce di un disagio: «Io sono il disagio di questa società» mi dice Sara tra lo scherzo e il serio «In quanto il mio modo di fare teatro non è riconosciuto né retribuito».
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