
Emma Dante: il Teatro di cui bisogna parlare
Emma Dante, ospite dell’Università degli Studi di Pavia in occasione del secondo appuntamento di “la stagione del Fraschini in Ateneo – Incontri con gli artisti”, ci spiega il suo approccio alla regia, dall’opera lirica alla scrittura scenica. Momento fondamentale è il lavoro di creazione che condivide con i corpi dei suoi attori, e che nella fatica appassionata con cui si compie svela una devozione laica all’arte teatrale.
Di Emma Dante si può dire molto, spaziando dal teatro sperimentale a quello greco e attraversando la lirica, e spesso lo si può fare con opinioni divergenti: il pubblico si divide, impara a conoscerla, alimenta il chiacchiericcio di chi ha avuto l’onore – e il coraggio – di lavorarci assieme. L’unica verità è che di Emma Dante si parla, oggi, perché la sua arte, evolvendosi e maturando, segna in modo dirompente il panorama teatrale, in Italia e all’estero.
La regista e drammaturga, nata a Palermo e diplomata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, rivisita la propria sicilianità attraverso un’opera di repertorio come Cavalleria Rusticana, atto unico di Pietro Mascagni. Tradizionalmente affiancata da Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, viene invece riproposta assieme a Voix Humaine, libretto di Jean Cocteau, per il fil rouge della gelosia che lega le due opere, sentimento amplificato fino all’eccesso della morte da un linguaggio realistico e da una musica sensuale.

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La Sicilia di Cavalleria ha carattere relativo: è lo sfondo di un lutto, di amori velenosi, di eros che mutano in thànatos, pulsione di morte che assurge a un piano emotivo rappresentativo di una condizione esistenziale. Le radici di questo delitto d’onore affondano in una Sicilia evocata, non celebrata, e la si coglie per mezzo di elementi simbolici presenti nella scenografia di Carmine Maringola, dai carretti tipicamente siciliani alle incisioni sui tavoli, ricreando ambienti familiari, come la piazza o le case che si affacciano sui vicoli, attraverso il dinamismo di strutture mobili e in grado di piegarsi alle diverse esigenze sceniche. Torna familiare la musicalità del dialetto, la mentalità che “scomunica” la donna tradita, nella dimensione del rituale di una terra d’origine che, confessa la regista, è l’ “altra riva”, l’identità passata ma sempre presente.

Quando si confronta con la lirica, la Dante rispetta il libretto, lo ascolta per tornare nei luoghi dell’anima classici, fedele all’eternità della grande opera d’arte; con grande dimestichezza riesce però a ritagliarsi, negli spazi musicali privi di parole, un’autonomia creativa più corposa. E’ così che in questa Sicilia di lutto, preghiere devote e confessioni omertose, ha luogo la passione della Via Crucis, il calvario di un Cristo seguito da una famiglia in pena. Queste laceranti sfilate di dolore si materializzano nel tremolio e nel respiro stentato degli interpreti, creature di creazione e sacrificio per la regista palermitana che del lavoro con il corpo dell’attore ha fatto cifra stilistica del proprio processo di scrittura scenica.
Emma Dante, ospite del Dipartimento di Studi Umanistici, racconta al Professore associato in Discipline dello spettacolo, Fabrizio Fiaschini, che questa minuziosa riscrittura sui corpi è un momento imprescindibile: se il teatro è concepito come vita di relazione che ri-accade, gli uomini in scena si concedono la libertà espressiva di consumare l’esistenza nel confronto reciproco. Quando la vita accade ed è seminata sul palco con le improvvisazioni, il regista la raccoglie e ne fa oggetto artistico. E’ un percorso lungo e paziente, centellinato in incontri dilatati nel tempo, e che sente solo progressivamente l’urgenza di farsi progetto non di intrattenimento, ma di riflessione e coinvolgimento sincero. Il suo teatro cerca e pone domande che risuonano, si comprimono e si dilatano nella cornice delle sfide che tengono sulle spine la contemporaneità tutta.
In questo cammino fra dune e immolazioni, l’anima è scortecata, e i fallimenti diventano miracoli che integrano il gesto artistico riponendosi in un non-luogo ben oltre il dramma vissuto personalmente.

E a Pavia Emma Dante tornerà nel febbraio 2019 proprio con un testo liberamente tratto da Lo cunto ti li cunti di Giambattista Basile: nello spettacolo, a interpretare le inselvatichite e solitarie Carolina e Rusella, due uomini, tra cui lo stesso Maringola, di cui, ci anticipa la regista, vedremo i muscoli in tensione costante, il sudore, i tendini allungati per restituire il senso della vecchiaia come stato ibrido dell’essere. C’è una commistione sensuale tra maschio e femmina che interessa all’autrice della Trilogia degli occhiali, come nelle curve sinuose e solide dei busti greci: proprio nel recentissimo Eracle, prodotto nel giugno 2018 al Teatro Greco di Siracusa, il ruolo iconico non è più riservato all’uomo perché il personaggio, senza sesso, incarna piuttosto il momento di incontro tra ruolo e persona nell’accezione jungiana di “animus”.
Questo corpo pensante sostituisce una mente foriera di pre-giudizi che sporcano l’atto. Come spiega Dario Fo, il gesto in movimento trae la propria forza da una sintesi scarna, dalla concentrazione in uno spazio piccolo di una grande energia che racchiude solo ciò che è essenziale all’impulso, ristretto ma vigoroso. Ciò che frastorna è proprio l’ingenuità del vuoto fanciullesco che si offre senza vergogna, un vuoto che si concretizza nella presenza scenica del corpo-in-vita, per dirla con le parole di Eugenio Barba, capace di rendere percettibile quello che è invisibile: l’intenzione.
Gli attori entrano in una pelle sempre nuova, e lo fanno in uno spazio di autonomia che è limitato dalla manipolazione accurata del regista, pena il cedere al dilemma karamazoviano del libero arbitrio. E in questo reciproco scambio è consentito portarsi dietro un segreto, celare una parte di sé solo intravista, per evitare il rischio di una cessione completa, un annullamento in un vuoto non più generoso ma svilito.

E’ questo il fulcro che ci induce a parlare, in un modo o nell’altro, del teatro di Emma Dante. Il fatto che lei non fugga dall’ingombro, non accampi vortici di idee, ma contempli il vuoto come intrinseco al teatro: quel senso di morte latente che percorre Cavalleria, la Voix, la Scortecata, è il sacro fuoco del teatro, in cui ciò che si perde viene ri-accolto. Conta come si muore, e cosa accade immediatamente prima di quell’atto essenziale che si compie in lacerante antitesi con l’altrove che l’attore carica dentro di sé essendo disperatamente vivo.
E qui ci pieghiamo a un’arte che è religione laica, alla pari del “teatro della morte” kantoriano in cui, torna a suggerirci Barba, soltanto i fiori recisi possono essere rappresentati.
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