
Come in un doloroso ricordo, la misericordia di Emma Dante per ciascuno di noi
Sono tempi duri e di forzoso isolamento per il mondo dell’arte, che ci costringono a rifugiarci nel godimento solipsistico del prodotto creativo, immediatamente deprivato della sua componente essenziale di condivisione.
Il ricordo di quello che abbiamo visto, perciò, diventa immediatamente più potente, quasi pizzica la lingua e si confonde con la nostalgia di tutti gli spettacoli che avevamo messo in programma, dell’attesa trepidante quando le luci si abbassano e l’aspettativa diventa quasi un bussare incessante alla porta.
Io sono stata fortunata, perché l’ultimo spettacolo che ho visto al Piccolo Teatro è di quelli che non ti lascia indifferente, sia che il tema tocchi tasti più intimi, sia che si ponga come occasione di una generale riconsiderazione del senso dell’essere umani.
Misericordia è l’ultima creazione di Emma Dante: un’ispirazione subitanea nata da una visione, da un’immagine concreta di quotidianità messa ai margini. La regista siciliana è tornata con una storia cruda e, tuttavia, verosimile: Arturo è figlio di una violenza inaudita che, con il suo esistere, ha tradotto in entusiastica, e a volte incauta, frenesia. Creatura fragile, viene preso in cura da Anna, Nuzza e Bettina, che prestano il loro tugurio a un atto di amorevole pietà.
Succedono cose, negli spettacoli di Emma Dante, che solleticano le carni, quasi indecenti, si è detto. E lo sono, in quanto fatti reali eppure parossistici, come una Cassandra che pronostica una deriva mai certa, eppure possibile, delle pulsioni dello spettatore assorto, un po’ scomodo nel suo sentirsi in bilico tra la repulsione del sentimento e il totale abbandono a un sogno di liberazione.
Misericordia è un urlo incessante e abissale che penetra attraverso le faglie troppo sottili degli oggetti ammassati, delle musiche piazzate senza timore di didascalismo, per trovare godimento nel corpo sfinito da una danza esegetica. Misericordia è il pretesto per raccontare una verità e un auspicio, la rassegnazione e il guizzo di fiamma, il buio liquido rotto dal suono che è speranza.
C’è una differenza radicale tra i personaggi rispetto al vivere la storia comune, una distanza subito colta nel suono che producono con il loro abitare lo spazio condiviso: le tre donne sferruzzano, si muovono rapidamente, con scatti frementi ed energici; parlano dialetti diversi eppure si intendono, perché la lingua che le accomuna è una cantilena irrequieta, lo stesso canale con cui una parte di quell’urlo ancestrale fuoriesce. Ma Arturo, Arturo è il pendolo del tempo. Arturo conosce soltanto la lingua del suono e del gesto, e con la delicatezza del volo irrompe nella miseria, forse la lava, forse la rende ancora più indigesta. Arturo è il bambino senza colpa: non conosce il passato né la storia di una sopravvivenza a tutti i costi, e per questo la sua è una sorta di autogenesi, nascita spontanea di un essere vivente che non conosce schieramenti.
Sono le tre madri surrogate, invece, a contendersi il ricordo: Emma Dante non tace sulla storia, perché il momento della rievocazione è anche quello dell’ombra di una gioia passeggera. I momenti collettivi in cui si tace per lasciare spazio al colore e alla musica sono solo di rado preparati, spesso repentini e audaci nello spezzare la catena della narrazione lineare con il fine ultimo però di rafforzarla. Eppure, ciò che strugge in questa catena di appelli al “picciriddu” e di rievocazioni di una nascita infausta, è che il racconto non serve ad Arturo: la favola infernale, ed è questa la verità più brutale che ci lascia Misericordia, è lo strumento per l’espiazione del senso di colpa. Arturo è il dramma di una violenza incarnata che si restituisce ogni giorno agli occhi delle tre donne: sono loro che, nella pietà per l’agnello, recuperano il senso della propria esistenza e si assolvono. E tutto questo Emma Dante non lo dice: lo insinua lentamente, goccia dopo goccia, colmando un distacco superficiale rispetto a una storia quasi ferina e, per questo, rifuggita. Eppure, nell’arco di un’ora appena, l’identificazione con la madre pietosa è quasi totale, fino a tradursi nella compassione di quella parte di sé che risponde agli stessi bisogni ontologici.
L’esito non è dato dalle parole, non soltanto: è dato dalla fisicità delle straordinarie Manuela Lo Sicco, Italia Carroccio e Leonarda Saffi, che esibiscono senza pudore corpi deboli e massacrati, esorbitanti e sgraziati, con una ferocia che testimonia la concretezza di un’esistenza mai desiderata. E questa affinità quasi angosciosa con la storia si rafforza per l’opposizione lacerante della danza rapsodica delle tre donne rispetto al ballo di Arturo, un Simone Zambelli che sembra cavalcare l’aria con una grazia che non è di questo mondo: è la purezza del movimento mai scomposto, che in ogni fibra porta la vita senza pentimento.
E minuto dopo minuto, la sensazione di assoluta precarietà pervade sempre di più lo spettacolo, come se il bimbo di legno fosse ancora troppo morbido per il mondo delle tre madri, come se la concezione fosse stato il vero peccato, avendo consegnato la creatura genuina a una crudeltà connaturata all’esistenza. Fino alla vestizione, preludio del viaggio dell’eroe, difficilissima e faticosa eppure, sempre, miracolosa. Il rito di passaggio è doloroso, e sebbene Arturo non cresca per far contento qualcuno, l’ultimo riconoscimento è per le donne: ed è il regalo per una maternità devota e sacrificale, è il vero atto di misericordia.
L’addio è straziante, eppure lui non lo sa. Noi, invece, lo abbiamo sentito con l’energia disarmante del buon teatro. E in questo addio momentaneo, quella stessa forza universale ci manca ogni giorno di più.
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