
Green Border – Cinema di confine | Venezia 80
Green Border inizia con la ripresa aerea di un confine boscoso. Il verde degli arbusti è l’unico e ultimo colore del film, poi affidato a un bianco e nero che renderà la foresta in questione un tetro labirinto di rami, tronchi e filo spinato. Perché Green Border non tratta di vittime o carnefici, ma di un confine. Innanzitutto geopolitico, quello tra Bielorussia e Polonia, che una moltitudine di profughi intenzionati a chiedere asilo politico in Europa attraversa in cerca di una vita migliore, venendo però rimbalzata dai frontalieri di entrambi gli Stati. Ma anche di un confine morale, etico e quindi politico, quello che divide la vita individuale dai problemi del mondo, l’umanità dalla disumanità, la morte dalla vita.
L’ultimo film di Agnieszka Holland parte quindi da uno sguardo aereo, un tragitto attraverso le nuvole costretto a stramazzare sul suolo di una tragedia che si consuma giorno dopo giorno nell’indifferenza delle istituzioni, in quell’anfratto simbolico, ottuso e arbitrario che chiamiamo frontiera. Si parte da una famiglia di migranti, per poi spostarsi sulla scissione morale di una guardia frontaliera in attesa di diventare padre, racconta l’impegno di giovani attivisti, e infine approda all’individualità di una donna, comune cittadina che, indignata, decide di dare aiuto.

Vittime, carnefici, aiutanti e, infine, l’essere umano privato, impotente, indifferente, oppure indignato, messo davanti a una scelta. Perché, l’ultima parte di Green Border, la più didascalica ed “educativa” nell’indignarsi, nel chiamare alla presa di coscienza, è anche quella che meglio restituisce un tragitto esistenziale che porta il presente a irradiarsi nell’abitudine individuale. Per cui, in una seduta di analisi, non si soffre per traumi infantili, lutti, dolori privati, ma per il regime intollerante e disumano dello stato in cui si vive.
L’impostazione drammaturgica corale segue quindi un doppio movimento orizzontale e verticale, simultaneo e progressivo, che ricollega singolarità e Storia, esseri umani privati e sdegno o indifferenza pubbliche, in un approccio umanista e militante, che dichiara a gran voce l’impossibilità di voltarsi dall’altra parte davanti ai problemi del mondo. I profughi sono persone-proiettili, perno di un braccio di ferro, prigionieri di un ambiente naturale dis-armonizzato da una regia inquieta, mossa, empatica verso i suoi soggetti, ben restituiti nella discesa agli inferi che porta una famiglia borghese a non avere più nulla. Sono protagonisti di un survivor movie, ma le immagini di Holland palpitano di verità e, rifrangendosi in prospettive opposte e variegate, sembrano formare un reportage che usa la rappresentazione finzionale per restituire il suo impianto fondamentalmente documentario, viscerale, immerso nella materia che tratta, convinto di dover mostrare le ferite dei corpi e del tempo.

Il confine, spazio epidermico tra due nazioni, culture, ma soprattutto tra due indifferenze collettive, diventa un protagonista ambientale, unica, violenta casa possibile per i protagonisti del primo capitolo, soggetto di un mosaico di sguardi e di vite. Ed è proprio per il suo sguardo molteplice, attento a vittime, carnefici e testimoni, che Holland si smarca dal facile rischio del pietismo eroico, del moralismo spiccio, della mera restituzione di una tragedia che ingaggi e ricatti cuori e occhi degli spettatori. È l’umanità tutta, privata e istituzionale, a essere presa in esame, nella catastrofe silenziosa. Perché la macchina da presa sceglie quasi sempre i volti sulla totalità, la mimica sulla parola. Così, il male non scade nel puro lamento, nel crogiolo indignato, nella pornografica restituzione di un conflitto che indigni e commuova, neanche quando Holland si concentra sui soggetti che da sempre ha raccontato con rotonda e delicata onestà: i bambini. Il male, in Green Border, diventa oggetto politico, contagio del potere, collegamento tra essere umano e istituzione.

Chi frequenta il Festival di Venezia sa quanto il Lido, nei giorni della kermesse, possa trasformarsi in una bolla cinefila entusiasta, fortunata della sua passione, appassionata dalla novità nei linguaggi e negli stili, ma dimentica di ciò che accade oltre la laguna. Il punto è che film come Green Border, pur non spostando l’orizzonte espressivo della settima arte, pur non delineando nuove forme, fanno scoppiare la bolla, rigettando il pubblico nell’oggi, aprendo la sala alla coscienza, nel problema palpitante di un presente avanzato, complesso, ma diplomaticamente dimentico degli ultimi. Ecco perchè Green Border, film di un’autrice-cittadina, è il film più politico, militante, straziante di questo Festival di Venezia, come l’anno scorso fu All the beauty and the bloodshed, perché anche lui ode a chi poteva essere salvato. Una visione appannata da lacrime, una tragedia che non si conclude con la scritta “fine”, sullo schermo nero.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista