
Drive My Car – Parole e ruoli da autenticare
Finora il cinema è sempre stato, per Hamaguchi, un luogo di parole e di interpretazioni. Meglio, un luogo di autenticazione di ruoli e di storie. Basterebbe anche solo guardare la recente Top 10 Criterion dell’autore nipponico per confermare un marcato rapporto con la dimensione teatrale, con l’applicabilità e la governabilità dei ruoli – il valico che l’interprete deve superare per farsi altro da sé –, con lo spazio del proscenio, stando su di esso, davanti, dietro le quinte. Tra i preferiti di Hamaguchi, del resto, leggiamo il Renoir di Stage and Spectacle: Three Films, ricordando che in altre sedi l’autore evocava anche Cassavetes tra le sue influenze, crocevia del lavoro sull’attore. Ebbene, Drive My Car torna su questi punti, dopo l’improvvisazione quasi gargantuesca di Happy Hour (2015) e Il gioco (dei ruoli, appunto) del destino e della fantasia (2021, Orso d’Argento alla scorsa Berlinale). Lo fa con un rigore maggiore, di matrice ora assolutamente nipponica, senza quella levità (e labilità) della sintassi dei titoli precedenti.
Come il Burning (2018) di Lee Chang-dong, Drive My Car arriva dalla raccolta di Murakami Uomini senza donne, ampliando il racconto nella misura. Tre ore che hanno un prologo densissimo, lungo 40 minuti (quando infine appaiono i titoli di testa), e si aprono poi nella codifica di tante storie e tante lingue, e nel tentativo di de-codifica di un unico grande dolore. Kafuki è attore e regista teatrale; ha perso la moglie all’improvviso a causa di un aneurisma, senza poterle confessare di averla scoperta mentre lo tradiva con un altro uomo. Lontano da casa, a Hiroshima, accetta la proposta da parte di un festival di mettere in scena la sua personale, multilingue versione dello Zio Vanja di Cechov. Gli idiomi dei vari attori si sovrappongono tra loro, il giapponese, il filippino, il mandarino, la lingua dei segni coreana. Kafuki impone nelle prove che ci si limiti a leggere il testo, azzerando ogni enfasi interpretativa. Sembra si sforzi di ricercare il senso autentico del messaggio nella parola glabra, spoglia di tutto. Ogni interpretazione traduce, tradisce il testo, lo veste anche d’eccesso, lo nasconde. Ma la ripetizione meccanica delle parole tiene invero il dolore di Kafuku impaludato: come l’esasperata riproduzione analogica dell’audiocassetta che riproduce le battute di Zio Vanja, registrate dalla moglie Oto per lui. Kafuki l’ascolta ogni giorno prima e dopo le prove, nel tragitto percorso sulla sua Saab 900 rossa. Replica a quelle battute con le sue, non per memorizzare il testo (quel passaggio è abbondantemente acquisito), ma per la voce di Oto, che affrontandolo in un dialogo autoriale e universale (quindi anche il loro) sopperisce all’incapacità abietta dell’uomo di confrontarsi con lei in vita.

Il testo letterario non può però dare effettivo sollievo a Kafuku se questi permane in un’impasse; star dentro e fuori da esso, rifuggire l’interpretazione di Vanja e scaricarla al giovane amante della moglie, un tronfio seduttore che lui aborrisce sempre nelle prove teatrali, eppure custode di parole che la moglie gli aveva invece negato. Vivere l’interpretazione vuol dire vivere nuovamente, doppiamente, esecrare l’automatismo (qui, in un certo senso, quello bressoniano) e vivere una performatività piena, di coalescenza tra sé e il testo. A questo servono i transfert della (ri)messa in scena: non a creare un doppio del testo letterario o una sua riproduzione visiva, ma ad aprire un margine tra la parola, l’idioma (anche quello sconosciuto dei segni) e la contingenza irriproducibile della performance; aprire a un reale pluridiscorsivo, che accolga il dolore di Kafuku e quello di Vanja, e che dia allora pienamente senso alla chiamata a vivere di Cechov («Riposeremo! Sentiremo gli angeli, vedremo tutto il cielo pieno di diamanti, vedremo tutto il male terreno, tutte le nostre sofferenze affondare nella misericordia che riempirà di sé tutto il mondo, e la nostra vita diventerà quieta, soave, dolce come una carezza»).

È Sonja che si pronuncia nella chiamata finale, non Vanja. Ecco che l’interpretazione impone pure e soprattutto un mettersi in ascolto e restare in silenzio. Misaki, l’autista assegnata a Kafuku per guidare la sua preziosissima Saab rossa, con tutto il garbo e il rispetto del mondo a rompere le prime reticenze dell’uomo, infrange pian piano anche la metodicità del non-dialogo con la moglie, della sua riproduzione in audiocassetta, draga tra i piccoli solchi di Kafuku offrendogli in cambio il suo, di dolore, e il suo sguardo nello specchietto retrovisore. Del resto, non solo il proscenio, ma pure lo spazio dell’automobile è tradizionalmente, nancyanamente, una boité-regard, una scatola per guardare, spazio chiuso che si dà alla vista, e insieme location che si muove e avvicina a una destinazione, dandosi tempo. Per Nancy, quell’approdo è in definitiva la morte. Per Hamaguchi può darsi che si tratti di uno spazio bianco, candido, come la collina innevata dove Misaki conduce Kafuku per condividere con lui il lutto della madre scomparsa, un luogo del sospiro, dove riposare, come Sonja e Vanja. E intanto che ci si approdi, fumare assieme tenendo libere le mani oltre il tettuccio scoperto dell’automobile.

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[…] Da Murakami, Hamaguchi adatta per il cinema il racconto Drive My Car. Lo allunga, esagera l’uso della parola senza neppure smarrirla nel contraltare del silenzio (abitato dal linguaggio dei segni, che difatti pronuncia parole coi gesti). Un film densificato di idiomi tra loro diversi che sposta di continuo la comprensione di un dolore. Per venirne a patti, tocca allora alla condivisione di esso, entro una vecchia Saab rossa o sul palco durante lo Zio Vanja di Cechov, all’apertura del proprio sguardo verso l’altro: anche quando questo dolore abita in un terreno che non si conosce, in un’immagine complessa che nell’idioma sconosciuto dei segni coreano impone uno sforzo in più, allontanarsi da sé e scomodarsi per imparare a guardare, a capire di nuovo. Andrea Giangaspero / Leggi la recensione […]
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