
The Killer – People are perverts | Venezia 80
Che David Fincher sia affascinato dai serial killer è cosa nota. Parla da sé la filmografia del regista che nel corso della sua proficua carriera è puntualmente tornato sul tema. In Seven, secondo lungometraggio del regista divenuto ormai un cult del genere thriller, la coppia di poliziotti formata da Morgan Freeman e Brad Pitt si trova coinvolta in una serie di brutali omicidi dal sapore biblico, Zodiac mette in scena la vicenda del cosiddetto Killer dello Zodiaco, attivo negli anni Sessanta e Settanta a San Francisco e Millennium – Uomini che odiano le donne, tratto dal celebre romanzo di Stieg Larsson, è nuovamente incentrato sulla caccia a un killer seriale. In questa panoramica di titoli non si può non citare la serie Mindhunter, di cui Fincher è produttore esecutivo e regista di alcuni episodi, che ripercorre le tappe che portarono alla nascita del concetto di omicida seriale e alla profilazione da parte dell’FBI di quei criminali che uccidono persone sconosciute senza un apparente movente.
«I think people are perverts. […] That’s the foundation of my career» dice il regista sogghignando rivolto alla telecamera in un video di backstage contenuto nel DVD di Millennium. Fincher sembra infatti avere una vera e propria vocazione per la rappresentazione dei lati più oscuri dell’essere umano e, anche quando non porta in scena degli assassini, i suoi personaggi sono degli antieroi dalla mente contorta e apparentemente incapaci di provare rimorso. Impossibile non pensare al Tyler Durden (Brad Pitt) del capolavoro finchiano Fight Club, ma anche all’ambiguità della gelida Amy (Rosamund Pike) di Gone Girl – L’amore bugiardo.

Non stupisce dunque che nel suo ultimo lavoro, The Killer, David Fincher sia tornato a rappresentare un’umanità perversa e disturbata attraverso la vicenda di un sicario professionista (Michael Fassbender) che, in seguito a un colpo andato male e alle conseguenze subite, parte per compiere la propria spietata vendetta. Un thriller ma anche un revenge movie in cui tornano centrali la violenza e il tema della caccia, questa volta di segno opposto poiché il protagonista è il killer seriale che insegue i suoi committenti. Fassbender è una macchina di morte (apparentemente) perfetta, un killer senz’anima e senza nome che ci viene presentato fin dalle prime scene del film attraverso le sue stesse parole.
Fincher, come già sperimentato in precedenza, sceglie di utilizzare il voice-over come dispositivo di narrazione, concedendoci l’accesso al monologo interiore del personaggio. Abbiamo così l’impressione di poter ascoltare i suoi pensieri più intimi, ma ben presto ci rendiamo conto che il flusso di coscienza che accompagna l’intero film non è altro che un mantra ossessivamente ripetuto, che nulla fa trasparire della personalità o del vissuto dello spietato protagonista. Non solo, questo mantra, un codice personale di regole alle quali attenersi (attieniti al piano, non improvvisare, non fidarti di nessuno, non provare empatia..), viene puntualmente contraddetto dalle azioni di Fassbender, sottolineando uno scollamento tra la sua narrazione e la realtà. Come in Fight Club, ci troviamo davanti a un narratore inaffidabile, di cui dobbiamo diffidare, raccogliendo invece gli indizi disseminati dal regista che ci permettono, se non di afferrare pienamente il personaggio, di intuire qualcosa su di lui e sul suo rapporto con il mondo.

La narrazione in focalizzazione interna viene rafforzata dallo stile cinematografico adottato, che cambia con il personaggio, e dallo splendido lavoro fatto sul sound design. Il suono è portatore di significato; ne troviamo un esempio lampante nella sequenza iniziale in cui vediamo Fassbender attendere pazientemente l’arrivo del proprio bersaglio, ascoltando con gli auricolari How Soon Is Now dei The Smiths, che utilizza come strumento per alleviare l’ansia. Ogni volta che la cinepresa riprende il primo piano del sicario sentiamo il suono diegetico uscire dagli auricolari, successivamente lo stacco di montaggio ci mostra, in controcampo, la stanza dell’hotel che Fassbender tiene d’occhio e, allora, la prospettiva sonora muta completamente, la musica si fa extradiegetica, riempiendo la scena a tutto volume e amplificando il senso di agitazione crescente del protagonista, in netto contrasto con la sicurezza ostentata del voice-over.
Rivelatorio è anche il rapporto del killer con lo spazio: nonostante l’azione si svolga in cinque luoghi diversi (Parigi, Santo Domingo, New Orleans, New York, Chicago), il protagonista li attraversa tangenzialmente, facendo emergere, anche nel rapporto con i personaggi secondari, il suo isolamento. Quello di Fassbender è dunque ancora un personaggio alienato, dalla natura ossessiva e dalla morale assente, tutt’altro che infallibile.
The Killer è un film che tiene lo spettatore incollato sulla sedia grazie alla regia meticolosa e impeccabile di Fincher, alla sua proverbiale attenzione per i dettagli e all’ottima prova attoriale di Fassbender. Una volta usciti dalla sala, però, ci si rende conto che manca qualcosa, quel quid che ha reso speciali i lavori del passato. Se il primo capitolo del film, quello legato all’attesa, costruisce una tensione crescente che deflagra inaspettatamente con il colpo fallito del sicario, la seconda parte risulta meno memorabile, rischiando di esaurirsi completamente nel genere revenge.
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