
Mindhunter – Stagione 2: l’arte dell’orrore celato
Una casalinga si chiude la porta d’ingresso alle spalle ed entra in cucina. Sistema la spesa nel frigo quando un rumore insistente dal bagno attira la sua attenzione. Si dirige in corridoio mentre Bryan Ferry dei Roxy Music canta di ipocrisia borghese e dell’adorazione per una bambola gonfiabile. Un’inquadratura dall’interno del bagno ci mostra una corda legata al pomello della porta, chiusa. All’altra estremità qualcosa che non ci è permesso vedere la tira compulsivamente. All’esterno del bagno la donna osserva la porta mentre continua a sbattere, e lentamente avvicina la mano alla maniglia. Non fugge e non cerca aiuto. Può solo farsi attrarre magneticamente da quel misterioso spettacolo quanto noi spettatori verso i primi minuti della nuova stagione di Mindhunter.

Il crime-drama di punta nel catalogo Netflix torna a ben due anni dalla prima stagione. A metterla al centro dei radar in quel 2017 fu la firma del Re Mida David Fincher, già complice della rivoluzione streaming Netflix con House of Cards. Si tratta dell’adattamento del memoriale Mindhunter di John E. Douglas, ex agente FBI autore del consolidamento delle pratiche di profiling nella caccia ai serial killer cui prese parte in numerosi casi. Ma, tolte alcune brevi prove sul campo, la prima stagione si concentrava più sullo studio della psiche criminale, con le interviste ad alcuni dei criminali violenti più famosi d’America.
Ecco che la seconda stagione diventa banco di prova, tanto per la serie e la sua volontà di muoversi in nuovi territori (le sequenze di interrogatori rimangano, ma in minor numero) quanto per i protagonisti, finalmente chiamati ad applicare i loro studi su un caso di scala nazionale che occuperà tutta la seconda parte della stagione: gli omicidi dei bambini strangolati ad Atlanta. I riflettori passano dall’agente Holden Ford (versione fittizia di John E. Douglas interpretato da Jonathan Groff) al collega Bill Tench (Holt McCallany) cui vengono dedicate le parti più sostanziose delle sequenze non attinenti l’indagine principale. La professoressa Wendy Carr (Anna Torv) si conferma a tutti gli effetti come terzo protagonista. L’unico personaggio femminile importante, in un mondo di predatori maschili dentro e fuori le sbarre.

Ciò che già nel 2017 aveva fatto spiccare Mindhunter erano le incredibili peculiarità di scrittura e messa in scena per gli standard del mezzo televisivo, la seconda stagione non è da meno. Si tratta di televisione adulta, fortemente consapevole della sua drammatizzazione di eventi reali e con un rispetto verso lo spettatore che mai viene a mancare. Risoluzioni anti-climatiche, fili narrativi evidenziati e arrogantemente lasciati sospesi. Nella prima stagione questa posizione etica era evidenziata dal sub-plot sul dirigente scolastico, probabile pedofilo o madornale errore di Ford? Non c’era risposta e in questa stagione il dubbio sottopelle intacca ambiguamente ogni angolo delle istituzioni e delle indagini fino a materializzarsi in un amplissimo discorso sulla colpa razziale.
I protagonisti si rispecchiano dolorosamente nei tratti distintivi che hanno osservato e studiato nei serial killer. Il geniale intuito investigativo di Ford viene messo in ridicolo di fronte alla sua supponenza e smania di superiorità intellettuale, il che lo avvicina al killer che sta cercando. Tench vivrà in prima persona la responsabilità morale del dubbio di covare un mostro in casa. La professoressa Carr si confronterà con le responsabilità che comporta l’accettazione della propria identità sessuale nell’America bigotta dei primi anni ’80.

La messa in scena continua a confermare la serie come uno degli esempi più impressionanti nel panorama televisivo. Non si tratta di opulenza visiva (che c’è ma è elegantemente celata) ma di un rifiuto totale della sciatteria nella messa in scena a cui, ironicamente, tanto c’hanno abituato molte serie originali Netflix. Mindhunter è il trionfo dell’orrore celato, della massima “fa più paura ciò che non vedi”, e per rendere competitivo uno show sui serial killer in cui ogni goccia di sangue è ritratta su una fotografia, ogni delitto è già avvenuto ed è solo discusso, ci vuole coraggio, arroganza e terribile mestiere.
David Fincher aveva applicato tutto ciò più di dieci anni fa con Zodiac e ora porta a compimento quel pensiero, lo perfeziona e serializza spartendo la regia col regista cult Andrew Dominik (L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford) e il veterano televisivo Carl Franklin. Basterebbe la scena accennata a inizio articolo o l’interrogatorio in macchina tra Tench e l’unico testimone sopravvissuto a l’assalto di un serial killer. Una vera masterclass sul creare tensione in un semplice dialogo basandosi sugli elementi fondamentali della messa in scena: posizione della camera, script calibrato e direzione maniacale degli attori.

Oltre ai protagonisti, a sbalordire sono ancora loro, i perfetti sconosciuti del cast, attori secondari e caratteristi chiamati a interpretare i serial killer. In sequenze dove il rischio caricatura è dietro l’angolo, il minuzioso lavoro di direzione attoriale restituisce delle persone realmente esistite in tutti i loro dettagli e tic, da Charles Manson che si sposta le ciocche di capelli, al sorriso sardonico de Il Figlio di Sam.

Non si tratta di un prodotto esente da difetti: il sub-plot della professoressa Carr è totalmente accessorio e il filone privato dell’agente Tench procede farraginosamente in alcuni punti. E’ una stagione maggiormente pacata, che fa centrale il concetto di attesa e anti climax mettendo alla prova più di uno spettatore. Mindhunter è anche uno dei pochi prodotti che continua con ammirevole arroganza a ricordarci che anche in televisione la scelta di dove puntare la macchina da presa è importante quanto il prossimo colpo di scena.
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[…] Sto pensando alle cose che ho visto dall’inizio alla fine, ma sono cose vecchie, come Mindhunter.Sui fumetti sarei più preparato e posso dire che uno che ultimamente mi è piaciuto tanto, proprio […]
[…] Il volume di Mimesis a cura di Pettierre presenta diversi passaggi suggestivi lungo il percorso che traccia attraverso la filmografia del nativo di Denver. In qualche caso regalando spunti illuminanti: il saggio di Eugenio Radin dal titolo Panic Room. La crisi dell’abitare nell’America di inizio millennio fornisce un angolo di visuale su di un film – spesso mal considerato – che apre zone d’indagine nuove, in una prospettiva di analisi ad ampio respiro riguardo il rapporto tra essere umano e spazio (architettonico e non solo) nella poetica di Fincher. In altri casi i saggi proposti attraversano tematiche già affrontate: il rapporto tra individuo contemporaneo e massa, quello tra l’essere umano e la propria proiezione di sé in un contesto socio culturale dominato dal capitalismo e dall’individualismo, l’autorialità nel caso della trasposizione cinematografica di un testo letterario o in un contesto seriale come quello della serie Netflix Mindhunter. […]