
Aggro Dr1ft di Harmony Korine – Del bisogno di soffrire al cinema | Venezia 80
Non si può parlare del film Aggro Dr1ft, senza parlare dell’esperienza Aggro Dr1ft. Non si possono considerare le immagini sullo schermo, senza prendere in esame il loro effetto sui corpi in sala. Il pubblico esaltato, quello in punta di sedia con le mani sulle orecchie, quello già uscito dalla sala. Perché l’ultima, pazza, violenta opera di Harmony Korine è un rapimento sensoriale che pungola occhi, orecchi e morale.
Il monologo crepuscolare e assorto di un sicario vagabondo procede pensoso, a colpi di massime epigrafiche, male gaze e pallottole, delineando un’epica criminale testosteronica. Nichilismo, solipsismo e sangue sono le vie maestre verso un male mefistofelico da battere e cercare per le strade, di livello in livello, perché in Aggro Dr1ft, l’universo del gaming non influenza solo la forma, ma la struttura drammaturgica stessa, rischiando di rendere monotona la successione degli eventi.
Sarebbe superficiale pensare a Korine, limitandosi a trattare delle sue trame così annoiate e annacquate, perché il potenziale eversivo del film sta tutto nella dialettica tra contenuto e sua restituzione. Chi conosce Harmony Korine sa bene come dietro l’apparenza di una provocazione adolescenziale spesso si nasconda una sperimentazione su linguaggi, stili e sul cinema stesso.

La violenza sullo schermo – più detta che mostrata – viene restituita da immagini a infrarossi. Infatti, Aggro Dr1ft è filmato interamente con l’uso di termocamere: speciali telecamere in grado di rilevare il calore dei corpi che cattura. Un mezzo violento per un cinema della violenza. Non solo perché, in ambito visuale, oltre all’uso recente per le misure di restrizione pandemica, la termocamera è uno strumento prettamente bellico, fondamentale per la guerra a distanza, ma piuttosto perché è una tecnologia capace di percepire il calore superficiale, trasformarlo in una campitura cromatica inquieta, classificando il corpo come materia, dato scientifico, indizio aggressivo.
La termocamera aliena la referenzialità dell’immagine in una restituzione cromatica ipersatura, violenta lei stessa. Si tratta di uno strumento ottico disumanizzante, che trasforma le identità in presenze luminescenti, i corpi in sagome, i volti in maschere. In questo modo Korine, approda al post-cinema, perché Aggro Dr1ft avrebbe funzionato anche in un’installazione permanente, oasi sperimentale in mezzo a tanti, troppi film espositivi e incravattati.

Sul finale, l’iperbole esplode, Aggro Dr1ft gioca col trash, il videoludico, lo sweeded; la colonna sonora di AraabMuzik sabota i pixel, la violenza dell’immagine fa tuonare il suono, la guerra diventa coreografia, culto muscolare, passione mortifera. Il nemico invece, diviene un oggetto del desiderio – «mi piace come muori» diceva Django. Attrazione e sfida danzano insieme. Perché in Korine, niente è bieco come sembra.
Aggro Dr1ft è un ago che punge, uno schermo che palpita, un cinema opaco che si rifiuta di coinvolgere esclusivamente gli occhi, un cinema davanti al quale si soffre, un racconto complesso da cui si vuole scappare, ma di cui si sente uno strano, abrasivo, inspiegabile bisogno.
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