
Oppenheimer – Dalla teoria al fatto del Cinema
«And I will show you something different from either
Your shadow at morning striding behind you
Or your shadow at evening rising to meet you;
I will show you fear in a handful of dust.»
È un fatto, ormai, che le aspettative con cui avviciniamo ogni nuovo titolo di Christopher Nolan riguardano inevitabilmente il fare esperienza di un’immane grandezza. Ce lo aspettiamo anzitutto perché, da Batman Begins (2005) e The Prestige (2006) in poi, il suo cinema si è concentrato sulla costruzione di blockbuster d’autore la cui riconoscibilità fosse da rintracciare in un montaggio serratissimo, sempre più moltiplicatore e accumulatore di scene madri. Fino all’esito ipersaturo (tutt’altro che perfetto) di Tenet (2020). Ed è altrettanto un fatto che questa dimensione tutta teorica dell’incontro possibile col meraviglioso, con una grandeur cinematografica (al di là, poi, del nostro gusto e apprezzamento), si realizza a tutti gli effetti nell’esperienza della visione sul grande schermo. Previsioni, congetture, strutture ipotetiche, teorie, appunto, e realizzazione in fatti.

Oppenheimer (basato sulla biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin, American Prometheus) non avrebbe pertanto potuto prendere una direzione differente, fissato inevitabilmente a un principio di spettacolarità da mettere per immagine. Pervaso da vibrazioni cataclismatiche, da un rumoreggiare che rende conto della prossimità di un’esplosione gigantesca, l’ultima fatica di Nolan si compone dovunque dell’unione particellare tra lo sforzo di una missione eroica, titanica, e l’avvento finalistico dell’Armageddon. Lo vediamo sin da subito. Se devono produrre un qualche effetto, le immagini detonanti in apertura su cui brucia in esergo il nome e il destino di Prometeo, questo è da cercarsi nella volontà di potenza di annichilire e insieme illuminare, irradiare di desiderio e sgomento la vista dello spettatore. Un’ambizione da subito elevatissima, che ora più che mai tocca però un picco remoto e indistinguibile tra la megalomania e l’amore puro. Amore per il cinema, naturalmente.

Si diceva al tempo di Tenet che la sua vocazione videoludica, la matrice tutta tecnica che lo domina in nome della sua (fanta)scienza, lo piegassero a un annullamento emotivo. Il film mancava di cuore. Eppure (come sottolineava Roy Menarini in una puntata dedicata sul podcast Il posto delle fragole), il cuore c’era eccome, ed era proprio lì: nell’immane sforzo di portare a compimento qualcosa di mai visto (il processo di inversione di entropia) attraverso il cinema, realizzarlo compiutamente. Di nuovo, la teoria che diventa fatto. Alla lontana, un po’ come la scrittura illuminata di McEwan che in un racconto di Primo amore, ultimi riti, immagina la scoperta matematica e le conseguenze potenziali di un «piano senza superficie». In Tenet, Nolan realizzava una proiezione del futuro in cui si compiva una scoperta scientifica tanto grande da implicare un corposo ripensamento del tempo e della sua orizzontalità. Tutto in vista di una manifestazione veristica dello smarrimento dell’uomo moderno, del suo disorientamento nei confronti di una comprensione del mondo non capitalizzabile.

Se lì Nolan dava forma con un cinema muscolare all’avvento di un mondo nuovo, futuro, da ripensare per evitarne l’implosione, in Oppenheimer l’operazione è in un certo senso capovolta, e sicuramente più complessa. Perché il suo è stavolta un film che già conosce il suo tragico dispiegamento, il suo destino terminale di morte e distruzione, ricreando e ripensando all’atomica, al Trinity Test, al Progetto Manhattan, alla vita del suo direttore e creatore J. Robert Oppenheimer, ma che dispone di una tecnica che – verrebbe da dire – viene da un cinema del futuro. Pellicola IMAX da 70mm, definizione di visione mai così elevata ed esaltante e insieme tanto difficile da riprodurre nel suo formato massimo (con pochissime sale IMAX in Italia attualmente in funzione). Anche questo è assai noto. Il punto è che questo cinema del futuro ambisce e persegue vette tanto elevate in una sorta di inversione di rotta, cioè ripudiando il digitale per adottare integralmente l’analogico. La verità granulare dell’emulsione, della luce impressa sulla pellicola, al tempo della post verità. E se c’è un luogo che può postulare e avere accesso a un momento tanto grande e terribile, in cui l’umanità ha optato per la via dell’autodistruzione (l’atomica), riappropriandosene per ridargli la sua forma autentica, quel luogo è il cinema prima della sua rivoluzione digitale.

Non c’è CGI nell’esplosione a Los Alamos (la cittadina fatta costruire nel deserto da Oppenheimer per i test nucleari). Lo spettacolo della detonazione poderosa, silente e poi fragorosa, in cui la luce corre più veloce del suono, il fungo s’innalza al cielo, il movimento delle onde d’urto con lo schizzo visibile di componenti particellari incendiarie, sull’immagine si fissa e fonde (per usare, impropriamente, la terminologia con cui Nolan bipartisce i due movimenti del film, a colori e col bianco e nero) un momento chiave della storia, si rifà presente attraverso la sua obiettività materica. È Nolan che si fa Oppenheimer, senza essere un Prometeo. Ripensa teoricamente al cinema (dove «la teoria arriva fino a un certo punto») e ne fa, di nuovo, un fatto.

Ed è bellissima la modalità con cui questa concretizzazione si muove sinuosamente, si fonde con l’esplorazione, sempreverde in Nolan, del dubbio e del senso di colpa, quindi con una ricerca integralmente umana, emotiva, che non s’è mai dispersa nei suoi giochi di prestigio (nella trilogia di Batman, nel fondamentale The Prestige, nella finale riconduzione all’amore di Interstellar, eccetera), se non in Tenet. Nella prossemica di Cillian Murphy si manifesta ogni spinta: è eroico salvatore di mondi in guerra e insieme, di questi, come recita nella traduzione del Bhagavad Gita, mietitore ultimo. Con tanto di infinitesimali variazioni nel mezzo. Non c’entra la forma defunta del biopic, né quella del mind blowing film. Dalla giovinezza accademica al Progetto Manhattan, fino al traumatico post Hiroshima e Nagasaki, lo sfasamento cronologico e il doppio piano cromatico non sono lì per rendere nota dell’ennesimo rovello inestricabile, ma per esprimere l’enorme ambiguità dell’Oppenheimer scienziato, teorico, pensatore che vede le rivoluzioni in atto nel secolo breve, quelle di Stravinsky, Picasso, Einstein. Ognuno con la propria sostanza abrasiva, le forme divergenti e insieme porose, ognuno con un decentramento dello sguardo che relativizza e rompe l’integrità. Come i frammenti complessi della scrittura di T.S. Eliot in The Waste Land, che compare per un attimo nella stanza dell’Oppenheimer ancora accademico.

A questo serve, più di tutto, la bipartizione del film tra Fusione e Fissione, tra il colore e il bianco e nero. Un doppio sguardo sulle cose che raccoglie la prospettiva interna di Oppenheimer e quella distante di Lewis Strauss (Robert Downey Jr.), la nemesi responsabile di averne rovinato l’immagine pubblica per puro tornaconto personale, per vendicarsi di una brutta figura subita. Allora, è giusto e naturale che il momento chiave della detonazione, nel centro del film, sia bilanciato da una doppia sequenza, un contraltare di estrema semplicità formale, in apertura e in chiusura. Nella relatività assoluta dell’incontro tra Oppenheimer e Einstein, visto da dentro e da fuori (un po’ come l’ultimo Koreeda di Monster), cogliamo le divergenze con cui si guardano il mondo e le immagini, a distanze differenti, con bisogni e capricci intestini differenti (quello egolatrico e infantile di Strauss e il senso di colpa apocalittico di Oppenheimer), letture la cui visibilità dovrebbe essere evidente, smaccata, abbacinante, e hanno invece un’invisibilità nucleare. Facendo sempre collimare il poderoso con l’esiziale, come nessuno meglio di Nolan sa fare.
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