
Monster – Il cuore dietro le verità parziali | Cannes 76
Dopo la seconda prova internazionale in terra coreana con Broker – Le buone stelle (2022), Hirokazu Kore’eda torna a Cannes e nel concorso principale con Monster, cimentandosi nuovamente con una produzione giapponese. Una madre, Saori (Ando Sakura, già nel cast della palma d’oro Un affare di famiglia), cerca di comprendere le ragioni dietro gli strani comportamenti di suo figlio Minato (Kurokawa Soya), alle prese con la fine della scuola elementare e gli sbalzi umorali di chi comincia a farsi domande e mettere in dubbio il mondo attorno a sé. La causa, apparentemente, è da ricercare nel suo maestro, Hori (Nagayama Eita). Il quadro su cui Monster si apre presuppone l’ennesimo dramma famigliare in una narrazione costruita sull’incompatibilità tra adulti e bambini, tra lo iato della sensibilità degli uni e degli altri. Non è propriamente così, anzi per nulla.
Il film prende ben presto a scompaginare la propria linearità e leggibilità attraverso una serie di momenti tra tonfi, incidenti, nascondigli, rumori. La forma si dissesta e lo sguardo relativizza la propria comprensione. È a questo punto che Monster apre il ventaglio, rimescola le carte: riavvolge il nastro e ripercorre gli stessi eventi da un altro punto di vista. Poi un altro ancora. Prima è toccato alla madre, quindi al maestro incriminato, che da bersaglio e dalla natura apparentemente bestiale è reinquadrato come vittima sacrificale. Il fuoco si sposta e rivela delle falle, omissioni; meglio, riempie, completa una parte del quadro, dà conto di un punto prima cieco. Dove sta la verità? Chi è il mostro del titolo? Forse Minato, il bambino stesso, non vittima ma bullo? Forse la preside, che tra un lutto e un ruolo delittuoso protegge gli interessi della scuola, senza curarsi dei sacrifici del corpo docenti e non mostra mai il fianco alle emozioni? Kore’eda insiste su un continuo riposizionamento critico delle immagini mostrate ogni volta restituendo centralità a ciascuno dei personaggi implicati, preside e bambini compresi.

Se in un primo tempo la parzialità della verità offerta dalle immagini e il gioco conseguente dello smascheramento dei ruoli e degli eventi da riperformare, riguardare, presuppone la costruzione di un film modellato sugli esiti del Rashomon di Kurosawa e avvicina le riflessioni finali di Memories of Murder (appunto, chi è il mostro? Noi tutti; il male ha un volto comune), in definitiva Kore’eda non abbandona ciò a cui ha sempre guardato: i legami del cuore, la natura cristallina degli affetti, il loro bisogno, la loro indissolubilità. Come in Nobody Knows, questo cuore emotivo delle immagini spetta ai bambini, a Minato e all’amico bullizzato, Hoschikawa (Hiragi Hinata). L’uno fa dell’altro la propria bussola. Si accolgono, si rifugiano in un luogo quasi miyazakiano, magico, fantasioso, lontano dagli occhi indiscreti di chi non comprende. Si armano della loro immaginazione e sognano di prendere il volo su un vagone abbandonato di cui fanno la propria casa (come sempre in Kore’eda, la famiglia al di là dei legami biologici). Certo, che l’opacizzazione della verità nella continua scomposizione dei punti di vista ci possa e debba condurre nell’affascinante e ormai denso regime di riflessione sulla rottura dell’immagine come membrana veridica (tornando al passaggio dall’analogico al digitale, alla manipolabilità dei pixel, alle fake news, fino al più recente tema sulle AI) è naturale e pure esatto. Ma è di Kore’eda che stiamo parlando. E non dobbiamo fare l’errore di dimenticarlo. Quell’andare al cuore è tutto e vien prima di tutto. Non è soltanto l’esito, è anche e soprattutto il processo.

Al fondo, suggerita, solleticata, viene a scorgersi l’idea di un primo amore, un’attrazione possibile. Monster si fa così pure queer senza attingere a modelli, scansa i didascalismi. Rende al contrario conto della portata emotiva di questa scoperta, e dell’indefessa ostinazione di chi non può accettarla, attraverso una prossimità vertiginosa con la morte, che il regista nipponico ha sempre tenuto a un palmo di distanza e a cui continua a guardare con somma fascinazione. Pensare, ancora, a Nobody Knows, è estremamente facile, ma più di tutto bisognerebbe tornare all’esordio di Maborosi, col falò, il fuoco fatuo da guardare negli occhi e da cui poi decidere di allontanarsi, scegliere la vita. Kore’eda della morte ha fatto persino il luogo, lo spazio del suo cinema in After Life, il dolce aldilà (guarda caso, una stazione ferroviaria) in cui prepararsi a rivivere eternamente il momento più bello della propria esistenza nella forma di un film. Ancora, ne ha fatto uno scivolamento incubale nel blu e nel buio cieco di Distance. Morte che di nuovo, qui, a quasi trent’anni dalla sua prima fissazione cristallina, occlude, deprime il sogno, ma per tutta risposta fa detonare la necessità di quella scoperta emotiva e sensibile dei sentimenti, creando un finale sovraesposto, bellissimo. Un prato su cui correre, un binario infinito da percorrere. Impossibile? Le immagini suggeriscono assai bene il contrario. Del resto, il cinema – e con Kore’eda non potremmo mai essere in errore – è un atto di fede.
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