
“Tenet” quantistico – Nolan e le teorie del tempo perduto
Atteso e pubblicizzato a dovere, l’arrivo del nuovo film di Christopher Nolan, Tenet, sui grandi schermi nazionali e internazionali ha già fatto fortemente parlare di sé, complice il nuovo filone di esperimenti su quanto il tempo sia o meno rappresentabile nei suoi effetti, anche in quelli più insospettabili, attraverso quella meravigliosa macchina enunciante che è il cinema. Forti del passato autoriale di Nolan, possiamo concederci qualche spunto di riflessione a partire da Tenet, muovendoci avanti e indietro tra i media, la fisica e le teorie del testo, per indagare la frenetica ricerca di un tempo sempre perduto.
Possiamo tranquillamente dire che la seconda metà del ‘900 sia stato il momento in cui l’umanità ha iniziato maggiormente a interrogarsi su quanto la temporalità sia o meno reversibile e manipolabile; complice l’evoluzione della Fisica Quantistica che ha fatto del tempo incognita fondamentale delle proprie teorie e la scoperta che la nostra percezione dello scorrere degli eventi altro non è che una prospettiva sempre orientata e accomodante, questa consapevolezza ha fatto della temporalità uno strumento con cui manipolare le narrazioni e i testi, potendone alterare lo statuto “naturale” e, in un certo senso, lineare.
In questo, certamente, il cinema ha un innegabile ruolo di complice e non solo perché la cinematografia fantascientifica legata al viaggio nel tempo ha proliferato enormemente negli ultimi 70 anni. Pensiamoci: alle sue origini, la temporalità aspettuale del film – cioè la durata effettiva di quanto si vedeva – era affidata ad un braccio umano che faceva ruotare la pellicola; bastava una giornata più stancante, una bevuta di troppo, l’aver fatto l’amore o l’aver litigato che il rappresentato mutava con l’umore di chi lo operava, accelerando o rallentando rispetto alla sera prima. Poi è arrivato lo standard, i 24 fotogrammi al secondo, ma quella differente densità dell’azione in qualche modo si è radicata.
Ed è proprio sulla densità dell’azione che Nolan ha sperimentato coi suoi tre film precedenti, specialmente con Inception e Dunkirk, estremi di un percorso sperimentale compiuto, maturo e, infine, elegantemente padroneggiato. Se in Inception la diversa densità temporale diventa il fine del racconto, mostrandoci una sceneggiatura in cui il muoversi lungo diverse durate incasellate è parte integrante dello svolgersi della vicenda, in Dunkirk questa diviene mezzo aspettuale, elegante artificio di montaggio narrativo, padroneggiato con tale maestria che persino la durata di un’ora viene mostrata in quasi il doppio del tempo. Nolan ha lavorato come un apprendista orologiaio, arrivando a costruire un meccanismo di ingranaggi tale da far muovere nello stesso quadrante una settimana, un giorno e un’ora, il tutto all’interno del medesimo segmento.
Tempo e densità sono a tutti gli effetti due degli elementi chiave dello strumento cinematografico nel suo farsi. Tornando alla Fisica Quantistica – altro modo per nominare la Fisica delle particelle – è ormai comunemente riconosciuto che la luce sia composta da particelle prive di massa – i fotoni – che si muovono nello spazio raggiungendo diverse superfici in tempi differenti. Il proiettore del cinema, persino quello digitale odierno, ancora “schiavo” delle bianchissime lampade allo Xenon, è progettato perché la maggior densità di fotoni raggiunga nel minor tempo possibile lo stesso punto, lo schermo a fondo sala, grazie a una lente che fa da ” mezzo di trasporto” per rendere le velocità tutte uguali.
Per via di questo strettissimo rapporto tra luce e tempo, il cinema diventa il miglior mezzo pensabile per toccare con mano come questo possa essere manipolato. Chiaramente non è stato il primo – il primato spetta ai Beatles, che con la loro Rain nel 1966 hanno dato una connotazione estetica a un nastro mandato al contrario – ma media diversi, come ad esempio la musica, usano dimensioni fisiche diverse – in questo caso l’aria -, mentre il cinema ha bisogno solo di luce, notoriamente sufficiente a sé stessa, diffondendosi anche nel vuoto, addensata lungo una durata, un tempo.
Nolan con Tenet inizia a sperimentare un altro aspetto strettamente connesso alla natura particellare della luce, cioè la sua possibilità di apparire in viaggio nel tempo, di mostrarsi andare a ritroso rispetto alla nostra prospettiva lineare. Il film non è ancora un vero palindromo – per quanto possa legittimamente essere visto al contrario – ma molto spesso lo fa sperare: alcune sequenze possono funzionare in entrambi i sensi, sia con un vero e proprio rewind, sia invertendo l’ordine delle battute – provate a rivedere la scena con Michael Caine invertendo l’ordine del dialogo: sembra comunque funzionare!
Ma come più volte viene suggerito nel film, l’andare a ritroso è un effetto dei nostri limiti percettivi. Richard Feynman – il più grande fisico della contemporaneità – lo spiega molto semplicemente in una sua conferenza dove racconta l’esperimento in cui un elettrone e un fotone vengono liberati nello stesso momento; a un certo punto, il fotone assorbe una particella che poco tempo dopo si scoprirà scaturire dall’elettrone stesso! Questa particella – chiamata positrone – ha viaggiato indietro nel tempo, almeno secondo la nostra percezione. La realtà è che non possiamo interpretare in altro modo un rapporto di scambio e trasformazione tra le due particelle se non dicendo che che l’assorbimento del positrone è avvenuto prima della sua stessa formazione.

Nolan lo mette in mostra continuamente: la mano tesa sul proiettile che viaggia all’indietro è l’elettrone e il tavolo su cui quel proiettile/positrone è appoggiato è il fotone; l’intenzione dell’averlo lasciato è la relazione di scambio che non possiamo interpretare in altro modo se non con un rewind percettivo. Per capire meglio l’inganno, pensate di lasciarvi andare a bordo di una bicicletta lungo una ripida discesa; immaginate però che contro di voi soffi un forte vento contrario: la vostra discesa vi apparirà più rallentata del normale e, soprattutto, se in terra sono presenti foglie o detriti, questi sembreranno muoversi a ritroso rispetto a voi! Tenet mette in mostra questo inganno, simile al guardare in video una ripresa di quella discesa controvento, forte del fatto che un film è fatto di luce e tempo, nulla più.
Senza paura si sbagliare, possiamo immaginare Tenet come l’Inception di un nuovo filone sperimentale di Nolan, dove gli esperimenti parlano sempre la lingua del mercato – magari la ricerca scientifica avesse i budget dell’autore londinese! – e dove la ricerca dell’effetto va, film dopo film, dalla superficie (artificio tecnico come fine del racconto) alla profondità (artificio tecnico come strumento per la riuscita del racconto). Non resta che aspettare, o meglio, attendere per il prossimo prodotto che con l’appeal dell’high concept ci mostri i risultati del laboratorio di luce e tempo in cui Christopher Nolan sfida i possibili del rappresentabile, consapevole che il mezzo – il cinema – pulsa delle stesse particelle con cui il mondo si rivela ai nostri occhi.
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