
Il lago delle oche selvatiche – Negli abissi di Wuhan
Un uomo si rivela a noi attraverso una soggettiva che mostra la sua mano: nocche insanguinate ed un tatuaggio raffigurante un colombo, l’animale sacrificale per eccellenza. Quest’uomo è Zhou (Hu Ge), un criminale in fuga, un guerriero della notte che non riuscirà più a tornare a casa. Il suo futuro è segnato: condannato a morte da parte dello Stato a causa dell’accidentale omicidio di un poliziotto e ricercato dai suoi “ex colleghi” criminali per via di una faida. Su di lui pende una taglia di 300 mila yuan. La sua compagna di viaggio è una prostituta di nome Liu (Gwei Lun-mei), grazie alla quale il protagonista riuscirà effettivamente a consegnare a sua moglie la somma della taglia che ricade sulla sua testa, ricongiungendosi (immaterialmente) con la sua sposa. Questa è la storia narrata nell’ultima impresa cinematografica di Yinan Diao, Il lago delle oche selvatiche, presentato in concorso per la Palma d’Oro alla 72ª edizione del Festival di Cannes.

Il regista e sceneggiatore Yinan Diao, dopo l’enorme successo di critica di Fuochi d’artificio in pieno giorno, – Orso d’oro e Orso d’argento per il miglior attore al Festival di Berlino -, ci regala una pellicola il cui manierismo, mai portato all’estremo od all’autocelebrazione, funge da arma perfetta per portare a compimento una ribellione contro la frenesia delle logiche dominanti di narrazione. La stessa frenesia che permea una gargantuesca metropoli in perpetuo movimento. Durante la visione ci si abbandona all’immagine (e al tempo) come ipnotizzati, e man mano che si prosegue si scivola sempre più dentro l’abisso, man mano proviamo ad immedesimarci e ad immergerci in questa città-lago che ci respinge – le sue figure sembrano manichini, che imbastiscono perfetti giochi d’ombra.

La realtà che ci viene mostrata è ambientata completamente nella – tristemente famosa – città di Wuhan, che si presenta a noi come un lago fatto di sangue, di pioggia, di sperma, dove tecnologia più avanzata e decadenza coesistono. Al suo interno pullulano forme di vita: la fauna periferica di una metropoli dai nervi tesi, in procinto di esplodere. È la storia di una realtà borderline, fatta di ciò che sta ai margini, popolata esclusivamente da microcriminali, triadi, prostitute, sottoproletari di ogni genere. Sin da subito ci viene mostrato il fondo, pressoché dal principio assistiamo ad una ricerca spasmodica del sottosuolo, – dall’entrata all’albergo, sino al sudicio ristorante (che ricorda la bettola di Milo della trilogia Pusher (N.W. Refn), dove il nostro anti-eroe assaporerà l’ultima ciotola bollente di spaghetti prima di morire. Ancora, ecco l’ossessione per l’abisso, perché inevitabilmente e solamente nell’abisso è permesso riscoprire l’oggetto paradossale, che ci viene costantemente negato: la luce.

Non è un caso che solamente nel finale ci venga mostrata una luce quanto più vicina possibile a quella solare, raggiante e non diafana. Alla fine non si tratta più di una luce-neon che sovente, più che illuminare l’immagine, la confonde, la sporca – come durante l’omicidio del poliziotto. In tutto il film assistiamo infatti ad un’accattivante illuminazione che deve molto all’estetica del sopracitato Refn, figlio illegittimo del primo Bava espressionista. Questa è accompagnata sovente ad un battere insistente della pioggia che contribuisce talvolta allo straniamento, talvolta all’ipnosi, rendendo sempre più flebili le parole pronunciate. La luce è percepibile, appunto, solo al fondo (o sul fondale), una luce liberatoria che demolisce una costruzione di un film pienamente buio. Una luminosità che non ci disturba più, che percepiamo come un sigillo, un timbro celeste su una promessa mantenuta: uno scambio, un ri-avvicinamento, un bagliore di uno sguardo talmente celere da sembrare impercettibile.
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