
Per i soldi o per la gloria – Una storia orale dei produttori italiani
L’attenzione del pubblico, dei cinefili e della critica si rivolge quasi sempre agli attori, ai registi, agli sceneggiatori e, più recentemente in maniera generalista, alla fotografia, al montaggio e alla palette di colori; se il cinema da sempre è stata un’arte e un’industria collettiva, che a differenza di altri linguaggi e media ha richiesto il coinvolgimento significativo di un gran numero di maestranze e tecnici, la figura per molti versi meno considerata di tutto il filone dell’audiovisivo è quello del produttore. Quello del produttore è un ruolo avvolto, nell’immaginario popolare, di cliché, parossismi e caricature, da molti anni prima che arrivassero Boris, Sergio e Diego Lopez, e quel geniale “ma che contratti? passione ci vuole, passione”.
Benché i produttori siano alla base del cinema come struttura industriale, molto raramente e a maggior ragione nel cinema mainstream si è data importanza ai singoli responsabili della produzione e dell’organizzazione, che in un certo senso corrisponde al “dietro-le-quinte” puro e duro, al camera caritatis di un set. Il caso, molto attuale, della popolarità di Kevin Feige, il cui nome spesso offusca quello dei singoli registi dell’MCU è la classica eccezione che conferma la regola; e, per inciso, può anche essere letto come il geniale frontman di una realtà crossmediale comunque e sempre riconducibile alla Disney. Certo, le major hollywoodiane sin dagli anni venti hanno saputo trasformare i loro prodotti, i loro loghi e i loro stessi nomi in brand, la genealogia dei produttori, ma dei produttori esecutivi e degli organizzatori generali resta il più delle volte inesplorata. Se La formula perfetta. Una storia di Hollywood, scritto nei primi anni duemila da David Thomson e recentemente portato in Italia dall’Adelphi, ha tracciato con attenzione e raffinatezza e da una prospettiva puramente produttiva la storia del cinema americano dalla fondazione dei primi studios fino a Chinatown e ai Cancelli del cielo, minimum fax pubblica adesso un testo che propone una contro-storia del cinema italiano del secondo Novecento raccontato dalla prospettiva dei singoli produttori.

Il volume, curato da Domenico Monetti e Luca Pallanch e intitolato Per i soldi o per la gloria, è il primo frutto della collaborazione tra minimum fax e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma: come anticipa Alberto Anile nella presentazione del volume, Per i soldi o per la gloria è il primo tassello di una nascente collana di “storia orale” del cinema nostrano, che, rifacendosi a esempi illustri come il dialogo Hitchcock – Truffaut o all’Avventurosa storia del cinema italiano di Goffredo Fofi e Franca Faldini, vuole dare voce ai professionisti dei set attraverso interviste particolareggiate, anziché espandersi su analisi e affondi saggistici. Lo stesso Per i soldi o per la gloria, che propone una ricca raccolta di interviste ai produttori attivi dal dopoguerra fino all’avvento delle televisioni private, non è che la prima metà di una storia dei produttori italiani: seguirà un secondo volume che verosimilmente andrà a trattare i produttori che hanno esordito dagli anni novanta fino ai giorni nostri.
Dopo la presentazione di Anile e un’introduzione dei due curatori Pallanch e Monetti, il volume propone una trentina di interviste ad altrettanti produttori suddivisi tra i vari gruppi: le “dinastie” – dai Cecchi Gori in giù -, le coppie – Mino Loy che racconta il sodalizio con Luciano Martino, Mario Orfini ed Emilio Bolles intervistati separatamente sulla loro collaborazione e sul prosieguo del loro percorso da “solisti” -, gli industriali come Giorgio Leopardi, gli allievi del Centro Sperimentale come Pier Luigi Pavoni, Enzo Doria ed Enzo Porcelli, i “battitori liberi” come Fulvio Lucisano, Marina Piperno, Elda Ferri o Antonio Avati, il fratello di Pupi. In questa ricognizione sicuramente manca una testimonianza diretta o indiretta sui due più grandi produttori italiani del Novecento, Carlo Ponti e Dino De Laurentiis, così come di un altro “pezzo da novanta” come Alfredo Bini, il produttore di Pasolini scomparso peraltro pochi anni fa; ma basta l’intervista che apre il volume, quella a Vittorio Cecchi Gori, a raccontare un’epopea famigliare che attraversa decenni di storia del cinema, passando per capisaldi, capolavori e cult come Il sorpasso, Ti ho sposato per allegria, …altrimenti ci arrabbiamo, Borotalco, La leggenda del santo bevitore, Pensavo fosse amore… invece era un calesse e, più recentemente, The Irishman. Proprio la parabola tracciata dai Cecchi Gori, il cui nome è adesso coinvolto in complesse indagini anche internazionali a seguito del fallimento di tutte le principali società della famiglia, è paradigmatica dell’evoluzione o forse della decrescita di tutto il cinema italiano. Se a lungo c’era stata una competizione aperta tra Cecchi Gori Jr. e Berlusconi, tra cinema, politica e calcio, la maggior parte degli altri produttori in pensione intervistati per il volume esplicitano un rimpianto cocente per aver venduto, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, le library dei film da loro prodotti a Berlusconi, ancor prima della nascita di Medusa – un’operazione finanziaria ai tempi enigmatica, ma destinata a generare fatturati immensi nel momento in cui il grosso della riuscita finanziaria di un film si spostò dall’incasso immediato nelle sale alla riscossione dei diritti derivanti dai passaggi televisivi.

Pressoché tutti i produttori intervistati da Pallanch, Monetti e i loro collaboratori per il volume concordano in effetti nel considerare in un’accezione fortemente negativa il momento in cui le televisioni iniziarono a dettare legge – anche e soprattutto in termini economici – sul cinema. Come ricorda Galliano Juso – che però ha venduto i diritti a Goffredo Lombardo, non al Cavaliere -: “ho venduto otto film di Tomas Milian a tre milioni e mezzo l’uno, ma non di dollari o di euro: di lire! E hanno incassato solo di dvd più di dodici milioni di euro, più la televisione, dove ancora adesso li mandano in onda. Mi sono impoverito con le mie stesse mani!”. La televisione non cambiò le regole del gioco della produzione soltanto per quanto riguardava i diritti di trasmissione: l’avvento e la proliferazione delle televisioni private portò anche alla messa in crisi del meccanismo del cosiddetto “minimo garantito”, per cui i distributori anticipavano ai produttori una cifra standard con cui realizzare il film; un altro sistema regolarmente utilizzato per finanziare i film negli anni passati, quello che prevedeva l’uso perenne di cambiali bancarie, si è adesso completamente trasformato e regolarizzato, legandosi a doppio filo con il meccanismo del tax credit e degli altri aiuti di stato, e facendo scomparire quella componente improvvisata e avventurosa con cui a lungo il cinema italiano si era autosostenuto negli anni della sua età dell’oro. “La televisione ha fatto due danni”, concludeva Juso, “il primo è che ha tolto spettatori al cinema, il secondo è che ha modificato il linguaggio”.
Per i soldi o per la gloria non ha la stessa prospettiva “olistica” o lo stesso sguardo omnicomprensivo che ha sancito la grandezza de La formula perfetta di Thomson, ma il volume di Pallanch e Monetti ha indubbiamente il merito di raccontare il cinema italiano da una prospettiva completamente diversa da quella usuale. Non si canta più la gloria dei registi, degli “autori”, se mai, in una lettura completamente diversa rispetto a quella cinefila, è vero il contrario: nella sua intervista, Nicola Carraro dice senza mezzi termini di essersi allontanato da Franco Cristaldi e dalla Vides quando il partner si ostinò a voler produrre E la nave va, uno degli ultimi film di Federico Fellini, che fece perdere alla società più di tre miliardi di lire, tanto che Télé Luxembourg finì per acquisirla completamente, “debiti di Fellini compresi”. Per i soldi o per la gloria peraltro rappresenta un infinito deposito di aneddoti: il film sulla saponificatrice di Correggio diretto da Mauro Bolognini il cui titolo originale La signora degli orrori venne cambiato dai distributori in Gran bollito senza avvertire né il regista né i produttori, e presentando un horror grottesco quasi come una commedia; Mariano Merli che si ritrovò protagonista assoluto dei “poliziotteschi” anni settanta soltanto perché Franco Nero aveva richiesto un cachet troppo alto per Roma Violenta; Alberto Sordi e Jacques Perrin inizialmente considerati come protagonisti per Il sorpasso al posto, rispettivamente, di Vittorio Gassmann e di Jean-Louis Trintignant; e molti altri ancora.
La tendenza a proporre una contro-storia è propria della critica cinematografica da quando questa ha iniziato a proporre un’analisi metodologica non solo del linguaggio dei film, ma del suo stesso linguaggio e delle sue stesse implicazioni: se vogliamo, la si può far risalire a Goffredo Fofi e alla sua rivalutazione di maschere popolari come Totò o Maciste; più di recente, anche Steve Della Casa ha giocato un ruolo importante nella rivalutazione del cinema di genere italiano. Nelle abitudini della critica cinematografica italiana, Per i soldi o per la gloria propone una piccola rivoluzione copernicana non tanto rispetto al genere dei film trattati, quanto per l’attenzione proposta, forse per la prima volta in maniera così capillare nella storia della critica italiana, agli aneddoti e alle complessità della produzione cinematografica.

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