
Fellini alla fine del mondo – E la nave va secondo Italo Calvino | Fellinopolis
Tra gli ultimi film di un Fellini ormai sessantenne, E la nave va, uscito nel 1984, è una dolente elegia ambientata tutta su un piroscafo, il Gloria N., che nel 1914, alla viglia della Prima Guerra Mondiale, salpa da Napoli diretta verso il Mar Egeo. L’ospite d’onore della traversata sono i resti della cremazione (!) di una nota cantante d’opera, che ha chiesto di spargere le sue ceneri nelle acque antistanti l’isoletta di Erimo. Il giornalista Orlando (Freddie Jones) è il nostro anfitrione nel conoscere gli altri passeggeri, molti dei quali amici del soprano, tutti pittoreschi, tutti decadenti e fuori-tempo-massimo. Lo scoppio della guerra mostra la Storia fare irruzione nella quotidianità della gente a bordo, fino a che, nel finale, una corazzata austriaca cannoneggia il Gloria N., facendolo affondare.

E la nave va viene spesso indicato come uno dei film minori del Fellini tardivo, appesantito dalla durata e dall’ambientazione d’epoca, reso ancora più straniante dalla scelta di ricreare un lungo viaggio in mare negli studios di Cinecittà, in un Teatro 5 invaso da un mare in plexiglass. Anche il tema scelto era in apparenza ben lontano dall’ancoraggio all’attualità che aveva fatto le fortune del Fellini maggiore, imponendo il regista come un vero e proprio commentatore sociale, La Dolce Vita in testa.
La critica un po’ si spaccò, al di là di una calorosa standing ovation alla Mostra del Cinema di Venezia; e se sul film scrissero intellettuali di spicco abitualmente incaricati di scrivere di cinema per quotidiani e settimanali, a cominciare da Moravia, E la nave va seppe attirare le intenzioni anche di due scrittori che abitualmente si tenevano lontani dai meandri della critica cinematografica. Uno era Guido Ceronetti, poeta adelphiano, l’altro Italo Calvino, tra i maggiori protagonisti della letteratura italiana del Novecento.
Guido Ceronetti impostava il suo intervento su un tono personale che subito diventava storico e infine cinematografico: «grazie a Fellini, mi rimetto a pensare alle origini di quella guerra che non è finita nel 1914 e che non finirà neppure nel 1984. È la nostra ‘guerra dei cent’anni’. Ossia, è una condizione bloccata che richiama il buñueliano L’angelo sterminatore». Lo scacco della borghesia tra ipocrisie e convenzioni stantie da un lato, la fine dell’aristocrazia, della Belle Époque e se vogliamo dell’intero Ottocento nell’altro film. In entrambi i film, una situazione di festa che va a finire male: in Buñuel, una cena di gruppo dopo uno spettacolo, in Fellini, un funerale lugubre in partenza, ma momentaneamente rischiarato dal ritrovo di tutti i ricchi invitati. In entrambi i film, una classe sociale rappresentata nella sua paralisi, nella sua sterilità: la borghesia sotto un’ottica ideologica da Buñuel, l’aristocrazia con uno sguardo genealogico da Fellini.

Diverso era il tenore dell’intervento di Italo Calvino, uscito su La Repubblica il 24 novembre 1983 parallelamente a una recensione negativa di Giorgio Bocca. Secondo Calvino, quella di E la nave va è «una storia che funziona perché la nave che affonda è il grande mito del nostro secolo, e come in tutti miti sappiamo già dall’inizio come andrà a finire, e la nostra partecipazione consiste nel modo d’identificarci con questa storia».
Un mito duplice, perché nel film di Fellini la malinconia del transatlantico che affonda sulla falsariga del Titanic si incontra con l’inizio altrettanto mitico della Prima Guerra Mondiale con i fatti di Sarajevo. Un mito anche proverbiale, perché, come rimarca Calvino, il mito narrato da E la nave va «può essere concentrato in una frase d’uso comune, come: ‘Stiamo per colare a picco’ o anche ‘Siamo tutti nella stessa barca’».
«Non c’è nulla che dà il senso di una belle époque quanto la sua fine, come se ogni belle époque portasse in sé il destino di finire bruscamente, di culminare in un fatto tipo Titanic o Sarajevo». Incisivo, sentenziale, questo è Calvino. Agli occhi dell’autore delle Lezioni americane lo stesso 1914 di E la nave va deve essere de-storificato: «non è un momento ma un mondo, un’idea del mondo come fine del mondo, un’esplosione che, a forza di viverci dentro, finiamo per considerare come immobile e permanente». Di questa suggestione apocalittica è figlia anche «l’assenza di pathos che direi sia la cosa più importante del film, e in fondo la più realmente angosciosa».

Calvino va anche al di là, fino a riconoscere nascosti anche nei precedenti film di Fellini la stessa idea di fine di un mondo, anche se meno esplicita, «come se tutti avessimo capito che la fine del mondo è diventata il nostro habitat naturale». Parole contestualizzabili in un 1983 ancora preda della guerra fredda, ma che sembrano scritte ieri, anzi oggi, nel nostro presente pandemico. Notiamo, per inciso, che la constatazione secondo cui ogni suo film rappresentava o la fine del mondo o la fine di un mondo era stata affermata dalla critica americana anche a proposito della filmografia di Stanley Kubrick, dal Dottor Stranamore in giù.
Sotto le parole di Calvino, E la nave va trova la sua attualità, un’attualità che non si ferma agli anni ottanta che di lì a poco assistettero al crollo dell’impero sovietico, ma che raggiunge anche l’oggi. Agli occhi di questo spettatore d’eccezione il transatlantico Gloria N. si fa carico di «un’immagine del mondo in cui ci troviamo sempre più stretti, in cui da un giorno all’altro scopriamo che distanze geografiche e sociali sono annullate, un’immagine del nostro pianeta sovrappopolato, ai cui problemi non si trovano soluzioni se non in affermazioni di principio che poi non si riesce a rispettare». Gli aristocratici impomatati amici del tenore devono accogliere a bordo profughi di Sarajevo: non basta questo a rendere E la nave va inquietantemente profetica tanto della crisi che scosse la Jugoslavia all’aprirsi degli anni novanta, quanto della stessa situazione contemporanea dei migranti nel Mediterraneo?

A dover dare ascolto a Fellini, che non visse abbastanza per vedere l’ideale di un’Unione Europea farsi realtà e poi disincanto, l’Europa era già vecchia fin dall’inizio del secolo. In uno dei suoi pochi film ambientato al di fuori dei confini nazionali, nelle acque libere del Mediterraneo – a ben vedere, nel suo unico film ambientato al di fuori dell’Italia – Fellini si diletta nel mostrare un’Europa, senza sostanziali distinzioni nazionali ma rappresentata dalla sua aristocrazia e dai borghesotti che ancora le stanno dietro, dedita ossessiva a un culto delle ceneri – letteralmente. Pare leggere rovesciato quel vecchio aforisma di Mahler sulla tradizione come custodia del fuoco.
Accostabile solo a Proust per la bravura con cui vi si tratteggiano le nevrosi dell’aristocrazia al momento della sua estinzione, E la nave va dimostra da sola come l’ultimo Fellini sia tutt’altro che inferiore al Fellini maggiore quanto a implicazioni e a densità dello sguardo sociale: solo che, personalmente e socialmente disincantato, deluso, privo di quel fare ironico e in fondo ammiccante che rappresentava il gusto e l’ambiguità di una Dolce vita, giunto agli anni ottanta Fellini sceglie di non fare più concessioni, di conferire ai suoi film una ruvidezza che mal si sposava con tutto ciò che fino a quel momento si attribuiva al felliniano. Ecco anche l’origine di una simile evasione retrospettiva, di una fantasia storica del calibro di E la nave va: scappare nella storia per scappare dalla storia, per accorgersi che in fondo i mali degli anni ottanta non risparmiavano neanche, camuffati in altre forme, gli anni dieci.
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[…] nella mia scrittura quando scelgo di raccontare quanto mi circonda. Certo Le città invisibili di Italo Calvino è un’opera magistrale, nel senso che ha mostrato, insegnato, proprio la natura narrativa di […]
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