
Bussano alla porta di M. N. Shyamalan – Finalmente un archetipo
Tra i registi più altalenanti e influenti del cinema americano contemporaneo sarebbe miope non considerare M. Night Shyamalan, che con la sua filmografia è da solo capace di sconvolgere ogni cliché sulla politica degli autori. Classe 1970, nato in India con il nome Manoj Nelliyattu Shyamalan ma trasferitosi da piccolissimo a Filadelfia, dopo due piccoli film introspettivi passati inosservati a livello di grande pubblico acquisisce un’improvvisa notorietà internazionale con Il sesto senso, per poi proseguire con una serie di notevoli successi al botteghino con Unbreakable, Signs e The Village, tutti basati su suoi soggetti personali. I lavori successivi ebbero lavorazioni più travagliate e contrastanti reazioni dal pubblico e dalla critica, fino ad arrivare al flop di After Earth, interpretato dalla famiglia Smith, uno degli insuccessi più clamorosi della storia recente di Hollywood. Con il successivo The Visit, Shyamalan passa improvvisamente da un budget di 130 milioni di dollari a un film autoprodotto da 5, eppure ritrova il successo di pubblico poi replicato con i successivi Split, Glass e Old. Bussano alla porta, il suo ultimo film arrivato a febbraio nelle sale italiane, ha confermato le ritrovate capacità di Shyamalan come affabulatore narrativo, tanto che la Warner Bros. ha stretto con lui un accordo di prelazione per la realizzazione dei suoi prossimi quattro film.

A uno sguardo macroscopico, diversi elementi subito spiccano, nella filmografia di Shyamalan, per quanto riguarda le forme narrative. Alcuni esponenti del cinema di genere all’americana, che hanno preceduto Shyamalan di una o due generazioni – penso a George Romero, a John Carpenter, a Wes Craven – hanno saputo con sorprendente efficacia rivestire una funzione puramente mitopoietica, plasmando personaggi e situazioni che sono veramente entrati a far parte dell’immaginario popolare contemporaneo. Icone, simulacri, vere e proprie “maschere” come quelle di Michael Myers o Leatherface. Sin dai suoi esordi sul finire degli anni novanta M. Night Shyamalan invece si è voluto soffermare, più che sulle immagini e sulle icone in senso stretto, sulle strutture narrative, su meccanismi di suspence e di rovesciamento dei presupposti iniziali del racconto che lo hanno reso noto in tutto il mondo per il suo “Shyamalan twist“, un vero e proprio marchio di fabbrica che caratterizza quasi tutti i titoli del regista.
Bussano alla porta si caratterizza per un impianto scenico e narrativo particolarmente minimalista e claustrofobico, anche rispetto alla catastrofe che si va a raccontare. Mentre sono in vacanza in una baita isolata, una giovane ragazza e i suoi genitori – una coppia omogenitoriale – vengono presi in ostaggio da quattro sconosciuti armati che chiedono alla famiglia di compiere una scelta impensabile per evitare l’apocalisse: dovranno scegliere liberamente di sacrificare uno di loro tre allo scopo di evitare un cataclisma di proporzioni globali, a seguito del quale, in assenza di sacrificio, si troverebbero ad essere gli ultimi tre umani vivi sulla faccia della Terra. Inizialmente i due padri pensano di essere tenuti ostaggio da una setta millenarista in piena crisi psicotica di gruppo, ma i notiziari iniziano a trasmettere breaking news di inspiegabili cataclismi naturali in diverse zone del pianeta, e i quattro “cavalieri dell’Apocalisse”, per scandire il poco tempo che resta prima che la catastrofe diventi inevitabile, iniziano a loro volta a sacrificarsi uno ad uno…

Bussano alla porta è un film drammaturgicamente meno solido di altre prove anche recenti di Shyamalan – si pensi ad Old, un thriller metafisico/fantascientifico cadenzato da un ritmo ineccepibile – eppure, in tutta la sua filmografia, è il titolo più scopertamente archetipico. Sono molte le questioni cruciali scomodate da Bussano alla porta, da un punto di vista antropologico, religioso, anche psicoanalitico se vogliamo: innanzitutto, il fantasma di un ritorno del sacrificio, e del sacrificio umano, una pratica abolita da millenni ed esecrata dalle religioni delle stesse civiltà che in un tempo antico lo avevano praticato. Quel “non sappiamo perché siamo stati scelti”, che ripetono più volte tanto gli annunciatori dell’apocalisse quanto le tre potenziali vittime sacrificali, rappresenta un’efficace traduzione cinematografica di quell’arbitrarietà intrinseca nella scelta della vittima su cui il grande antropologo francese René Girard ha speso molte pagine – ma il fatto che la scelta impossibile di un sacrificio rituale ricada proprio su una famiglia composta da due padri omosessuali e una bambina cinese adottata conferma anche la teoria girardiana dei “segni vittimari” di discriminazione che comunque persistono, sin dall’origine del sacrificio.
Le visioni catastrofiche, confinate tutte nella televisione, fino agli ultimi minuti del film, rimandano anche a un altro grande autore francese del secolo scorso, Jean Baudrillard, che con il controverso pamphlet dei primi anni novanta La Guerra del Golfo non ha avuto luogo aveva provocatoriamente evidenziato il carattere contraddittorio, voyeuristico, perennemente manipolatorio di ogni apocalisse televisiva. Significativo l’omaggio a Tarkovskij e alla sua opera ultima Sacrificio, soprattutto nel finale: con un linguaggio cinematografico completamente diverso, anche l’ultimo film del grande cineasta russo ruotava attorno a un’apocalisse annunciata e alla scelta, apparentemente folle ma effettivamente efficace, di un singolo uomo fino a quel momento non credente di sacrificare tutto pur di stornare l’apocalisse.

Fatto ancora più sorprendente, e ancora più implicitamente biblico, riguarda l’uso che Bussano alla porta fa di una delle figure più ambigue e misteriose del Nuovo Testamento, quella del katechon, che faceva la sua prima e unica apparizione nella Seconda lettera ai Tessalonicesi. Quanto più andava avanti negli anni con la sua predicazione, san Paolo si trova di fronte a un paradosso: lui, e tutti i primissimi cristiani, si aspettavano il Giorno del Giudizio da un momento all’altro, memori della profezia di Gesù secondo cui “non passerà questa generazione prima che tutto avvenga”: ma i decenni passavano, e non era avvenuta nessuna parusia della gloria. “Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente, quasi che il giorno del Signore fosse già presente”, scrive San Paolo ai Tessalonicesi. “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario. E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene”.
Che cosa lo trattiene, colui che finora lo trattiene: nel greco in cui scriveva Paolo, questa espressione si rendeva appunto con katechon, una volta al neutro, la seconda al maschile, quasi ad indicare che si trattasse di una singola persona. Su che cosa fosse in grado di trattenere l’avvento dell’Anticristo, e il susseguente, trionfale Giorno del Giudizio, sono state riempite pagine e pagine di teologia cristiana e anticristiana, fino ad arrivare nel secolo scorso a Carl Schmitt e al suo vertiginoso dialogo con Jacob Taubes; anche il filosofo italiano Massimo Cacciari, con il suo Il potere che frena, una decina d’anni fa ha dato il suo contributo alla riflessione filosofica su questo passo, proponendo anche un’antologia del dibattito a riguardo. Ma, a ben vedere, l’idea di un’apocalisse differita, stornata all’ultimo minuto, rimandata da un Dio tanto severo quanto misericordioso, affondava le sue radici nel profetismo ebraico, come dimostra bene la storia di Giona dopo essere riemerso dalla balena.

Il dibattito prima teologico, poi filosofico sulla figura del katechon non ha mai sciolto quello che resta uno dei passaggi più enigmatici dell’intera Bibbia cristiana, non inferiore alle profezie dell’apostolo Giovanni da Patmos per oscurità. Ma la situazione archetipica di un’Apocalisse differita, e del singolo che la differisce (ma mai la annulla), è tornata con prepotenza nella fantascienza: a questa narrativa infatti si sono aggrappati film molto diversi tra loro, da Ultimatum alla Terra ad Arrival, da Terminator al già citato Sacrificio, e, per farla breve, tutti i film di supereroi eccetto Avengers: Infinity War, dove l’ecatombe finalmente avviene salvo essere “annullata” nel successivo capitolo; persino in alcuni capitoli di 007 e Mission: Impossible, che pure non appartengono al genere fantascientifico, i rispettivi James Bond ed Ethan Hunt assolvono una funzione catecontica. Ma mai era successo che, nel cuore del cinema hollywoodiano e nel pieno rispetto delle convenzioni narrative del cinema di genere, l’archetipo del katechon veniva ripreso con la stessa concentrazione narrativa, e la stessa sibillina chiarezza, che avvertiamo in Bussano alla porta.
Nel Novecento teoretico, prima Jung, a volte con i toni esaltati di un profeta biblico o neoplatonico redivivo, poi James Hillman, con maggior equilibrio e fascino dell’esposizione, hanno voluto evidenziare il carattere omnipervasivo e quasi ipnotico degli archetipi; rifacendosi agli studi junghiani il grande studioso del mito Joseph Campbell, con il suo saggio del 1948 L’eroe dai mille volti, ha saputo rintracciare la persistenza degli stessi archetipi narrativi nelle mitologie di popolazioni lontanissime tra loro. Per tramite di George Lucas e di Chris Vogler, le teorie di Campbell sono approdate ad Hollywood, e numeri alla mano si è rivelato veritiero il pensiero recondito che un uso accurato degli archetipi, tanto a livello di strutture narrative quanto a livello di caratterizzazione dei personaggi, avrebbe garantito un maggior successo di pubblico ai film.

Di tutti i registi che, bene o male, appartengono alla macchina narrativa hollywoodiana nei suoi generi canonici, M. Night Shyamalan è stato uno di quelli che con maggior efficacia e anche spericolatezza ha saputo dialogare con gli archetipi, con certe situazioni metafisiche, con l’immaginario delle maschere e dei miti – arrivando anche a proporre, in Signs, complice Mel Gibson, una riflessione tutt’altro che scontata sul rapporto tra Dio e la presenza del male nel mondo. La carriera stessa di Shyamalan in fondo ha obbedito a uno schema archetipico, a un percorso di caduta e redenzione, di “discesa all’Ade e resurrezione” che non rimane solo nei confini di un meta-cinematografico hollywood ending. E dopo i successi al botteghino di film come Split, Glass e Old, Shyamalan, senza fare un film d’autore, ha fatto un film intellettualissimo. Anche Bussano alla porta ha avuto un buon risultato di botteghino, il che conferma ancora una volta la pregnanza e l’efficacia delle narrazioni che si appoggiano tanto prepotentemente sugli archetipi, anche a costo di sacrificare la chiarezza di certi snodi narrativi o l’apparente credibilità dell’impianto drammaturgico. Ma anche questo testimonia, a ben vedere, la forma plasmante e riplasmantesi degli archetipi.
“Cavalieri del lavoro simili a Gesù
Non votiamo gli uomini
Non li votiamo più
Tornerà la terra
Follemente bella
Dopo l’estinzione della razza umana”
Baustelle, L’estinzione della razza umana
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