
Glass, uno Shyamalan fragilissimo
Diciamolo subito: Glass non è affatto quel disastro di cui molta stampa americana ha parlato. Portando avanti una metafora fin troppo facile, si potrebbe dire che il film è di un vetro fragile, un po’ opaco, pieno di incrinature, ma abbastanza resistente da non frantumarsi sotto il peso delle sue ambizioni. Il nuovo film di M. Night Shyamalan chiude la trilogia più strana della storia del cinema tirando le fila di un racconto iniziato nel 2000 con lo splendido Unbreakable e portato poi avanti a sorpresa due anni fa nel thriller-horror Split, con quell’apparizione nel finale di Bruce Willis che ricollegava in extremis la pellicola al primo film. Un plot twist come ormai il regista indiano ci ha ampiamente abituato in questi ultimi vent’anni, in quella che – tra folgoranti successi, flop clamorosi e rinascite low budget – è stata una delle traiettorie più imprevedibili del cinema americano recente. E anche con Glass Shyamalan non sceglie certo la via più convenzionale, spremendo al meglio gli appena 20 milioni di budget per girare un film minimalista, psicologico e anti-spettacolare (meravigliosamente frustrante nel promettere uno showdown finale su un grattacielo che – spoiler – non avverrà mai), chiudendo i suoi tre nello spazio claustrofobico di un ospedale psichiatrico, quasi si trattasse di un improbabile crossover tra gli X-Men e Qualcuno volò sul nido del cuculo, e insinuando un dubbio pericoloso: sono uomini speciali o solo psicopatici affetti da manie di grandezza? Un film dunque audace che, se si sta al gioco, sa stupire e persino appassionare.
Certo ci sono le note dolenti, e non sono poche. Il racconto ha un passo incerto, un ritmo che soprattutto nella seconda parte proprio non funziona (ciò è probabilmente dovuto al fatto che le tre ore e mezza originali di girato siano state ridotte nelle circa due ore del montaggio finale), dando l’idea di una pellicola squilibrata e non sempre perfettamente a fuoco, a partire dal titolo. Sebbene esso faccia riferimento al carismatico Elijah “Mr. Glass” Price di Samuel L. Jackson, grande burattinaio degli eventi come in Unbreakable (ma in quest’occasione un po’ meno affascinante), il vero mattatore qui è James McAvoy, straordinario nel dare corpo e voce alle molteplici personalità che abitano la mente di Kevin Wendell Crumb (ben 24, tutte accreditate nei titoli di coda!), in particolare la terrificante Bestia. Bruce Willis sembra invece faticare a ritornare nei panni dell’indistruttibile David Dunn, sicuramente non aiutato da dei dialoghi non proprio eccellenti – giudizio questo purtroppo estendibile anche a un po’ tutti gli altri personaggi. Interesante però la scelta di casting di Sarah Paulson, presa in prestito da American Horror Story per farle vestire i panni della misteriosa dottoressa Ellie Staple, mentre i comprimari che idealmente dovrebbero rappresentare i legami umani che tengono i tre “freaks” ancorati alla loro parte umana (l’unica superstite di Split Casey, il figlio di David e la madre di Elijah), sono personaggi qui debolissimi, e qualsiasi cosa facciano o dicano sembra abbastanza ridicola. La trama, infine, seppur riesca sempre a mantenere un discreto livello di tensione, traballa non poco. Al di là dei buchi di sceneggiatura evidenti (basti pensare a un po’ tutto ciò che succede nella struttura psichiatrica, teoricamente di massima sicurezza) e del tradizionale plot twist che questa volta giunge un po’ prima della fine, le motivazioni che spingono Mr. Glass a orchestrare il suo grande piano sembrano un po’ troppo deboli (per non dire deludenti) per giustificare la gravitas che permea tutta la storia, e la morale finale è fin troppo zuccherosa considerato il tono della saga. La spiacevole sensazione, alla fine, è quella della montagna che partorisce il più classico dei topolini.
Eppure… Eppure il film merita di essere visto e difeso. Perché Glass è un oggetto talmente anomalo nel cinema di oggi che non può non essere guardato con un po’ di ammirazione e affetto. Perché Shyamalan resta un regista virtuoso capace di regalarci inquadrature e movimenti di macchina che rivelano la sensibilità di un autore padrone del mezzo come pochi a Hollywood. Perché, anche se tutta la riflessione su cosa significhi essere un supereroe (o un supercattivo) e di conseguenza su cosa sia un film di supereroi fosse già stata affrontata, e meglio, vent’anni fa in Unbreakable (in questo senso decisamente più sottile e molto meno didascalico), vale comunque la pena riproporla oggi, ora che i supereroi hanno letteralmente invaso il grande e piccolo schermo battendo record d’incasso impensabili e imprimendosi in modo indelebile nell’immaginario pop contemporaneo. In pochi infatti finora hanno colto l’occasione per imbastire un vero discorso metanarrativo sul genere smontandone pezzo per pezzo i meccanismi (purtroppo il Watchmen di Zack Snyder non ha reso giustizia al seminale fumetto di Alan Moore), intenzione che invece Glass rende da subito esplicita ergendola a fine ultimo di tutta l’operazione. Mr. Glass ci dice che questa è stata una origin story. Ma di chi? Non certo la sua, o di quella degli altri due protagonisti, già raccontata nei precedenti due capitoli. Allora forse questa è la nostra origin story, quella di tutte le storie di supereroi che abbiamo inventato affinché questi racconti di uomini e imprese straordinarie siano d’ispirazione per noi persone normali, per darci fiducia, coraggio, e la forza di trasformare anche le nostre più grandi debolezze in superpoteri.
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