
Gioco di archetipi, ricordi di miti – Fellini e James Hillman | Fellinopolis
Regista geniale e iconico, tra i primi a potersi fregiare di essere diventati aggettivi – felliniano, Felliniesque, fellinien – tra il 1952 del suo esordio Lo sceicco bianco e il 1990 de La voce della luna Federico Fellini si impose rapidamente come uno dei maggiori registi italiani e mondiali, capace di creare quattro capisaldi della storia del cinema del calibro de La Dolce Vita, 8 e ½, Amarcord e Il Casanova.
In tutt’altro campo ma grossomodo nello stesso periodo di tempo era attivo anche James Hillman: allievo di Carl G. Jung, a partire dagli anni Sessanta e soprattutto dopo la morte del maestro aveva cercato di praticare una re-visione della psicologia che diminuisse la centralità all’elemento terapeutico della seduta frontale con il paziente a favore di una “terapia delle idee” dall’impostazione archetipica.

Federico Fellini e James Hillman non si sono mai incontrati di persona: eppure Hillman non si perdeva nemmeno un film di Fellini, e Fellini leggeva tutti i testi di Hillman, in Italia spesso pubblicato dall’Adelphi. Qualche anno prima di morire, Fellini arrivò a indicare Il mito dell’analisi, uno dei più significativi e autocritici contributi di Hillman all’avanzamento della psicologia nel secondo Novecento, come il suo libro preferito in assoluto.
Nel 2003, in occasione del primo decennale dalla morte del regista de La Dolce Vita, il quotidiano La Repubblica intervistò James Hillman a proposito del cinema di Fellini, sul quale lo psicoanalista americano espresse giudizi continuamente elogiativi. Il film di Fellini che Hillman riconosceva più vicino alla sua opera era il Satyricon, ma quello che diceva di amare di più era Giulietta degli spiriti, datato 1965, primo lungometraggio a colori per il regista riminese, e descritto dallo psicologo come «il viaggio psicoanalitico di una donna sedotta da miriadi di fantasie dell’animus».

Al momento della realizzazione di Giulietta, Fellini era all’ultima fase del suo rapporto terapeutico con lo psicologo junghiano Ernst Bernhard, morto proprio durante la post-produzione del film: la rilettura in chiave psicoanalitica del film suggerita da Hillman non è affatto una sovrainterpretazione frutto di una deformazione professionale, perché con Giulietta degli Spiriti Fellini stava deliberatamente mettendo in scena sé stesso e i suoi fantasmi, attraverso il suo alter ego femminile interpretato dalla moglie Giulietta Masina.
Particolarmente importante, all’interno della filmografia di Fellini e all’interno dell’occasionale rilettura che Hillman ne tracciava per La Repubblica, risultava essere 8 e ½, come prevedibile. Se Giulietta degli spiriti in una lettura parajunghiana affrontava la lotta di una donna con il proprio animus, 8 e ½ affrontava da un punto di vista maschile «la rappresentazione dell’altra parte dell’essere umano: l’anima, ovvero tutto ciò che ha a che fare con la componente femminile come contatto con l’inconscio. La parte salvifica del film è la donna mediatrice di emozioni e di accoglienza materna». Del resto, era almeno dai tempi de La Strada che Fellini aveva dispiegato «una galassia mitica di donne-fantasma, donne-proiezione e donne-simulacro», fino ad arrivare ai compiaciuti parossismi di 8 e ½ e de La Città delle Donne.

L’elemento che del cinema felliniano risultava significativamente vicino alla sensibilità di James Hillman, nonché alla sensibilità dello stesso Jung, era la ricorrenza a volte estremizzata di simboli e di archetipi, di figure, umane, animali, o a volte oggettuali, in cui si incarnavano una plurivocità di significati, emotivi prima ancora che concettuali, capaci spesso di indirizzare il protagonista lungo il suo percorso, o quantomeno di rappresentarne l’interiorità psicologica.
Esemplare era il mostro marino che, morto, riemergeva dalle acque portato sulla spiaggia di Ostia da un gruppo di pescatori, sotto gli occhi sonnolenti di Marcello Mastroianni, nel finale de La Dolce Vita: con un riferimento quasi parodistico alla morte e resurrezione di Cristo, quel pesce incarnava appieno l’impossibilità dell’autentico e del sacrale in quello spicchio di Italia che nel 1960 iniziava ad affacciarsi al boom economico, ma anche la percezione stessa che il personaggio di Mastroianni, forse, aveva di sé; il mostro marino incarnava questi due significati, e, potenzialmente, infiniti altri ancora.

Ad accentuare ulteriormente le corrispondenze reciproche, è attestato che nei primi anni Ottanta Fellini stava lavorando a un grosso progetto, un film a due parti che poteva eventualmente essere trasformata in una serie televisiva, intitolato L’Olimpo. Pubblicata qualche anno fa dalla SEM, la stesura provvisoria di quello che rimase un copione presto abbandonato risentiva chiaramente dell’influsso di autori quali Bernhard, Karl Kerényi e lo stesso James Hillman, la cui summa di pensiero sugli archetipi greci la si può trovare nella raccolta di saggi Figure del mito.
Ciò che aveva avvicinato Hillman al cinema di Fellini non era solo questa dimensione archetipica, ma anche la concezione fiduciosa nei confronti del potere terapeutico dell’immagine di cui trasudavano i film del regista riminese – potere terapeutico che, per la sua esperienza personale, Fellini attribuiva innanzitutto alla realizzazione del film, come esprimeva bene proprio 8 e 1/2: «Già La Dolce Vita e 8 e ½ erano risposte al nichilismo tramite l’animo delle immagini. Per non parlare di Roma: la scena delle motociclette che attraversano la città è la calata degli Unni, barbari invasori di civiltà».
Su questo potere terapeutico della visione, e sull’importanza delle fantasie archetipiche al momento del crollo di una civiltà, Hillman sarebbe tornato in quella che volutamente rimase la sua opera postuma, L’ultima immagine, un libro-dialogo con la bizantinista italiana Silvia Ronchey che prende spunto dai mosaici di Ravenna.

Attraverso linguaggi diversi ma convergenti, Federico Fellini e James Hillman si erano trovati a seguire percorsi paralleli, riproponendo la sfida, fallimentare solo a uno sguardo cinico, e umanamente ricchissima, di resuscitare il mito, gli archetipi, i sogni, anche a prescindere dalle parole: «La ricerca di Fellini, come la mia, mirava a sottolineare la centralità delle immagini, tanto più importanti dei significati», era la conclusione di Hillman; «Attribuiva il primo posto all’immaginazione, intesa, con assoluta concretezza, come realtà fantastica; e alle immagini dava voce. Non a caso, nei film, cambiava spesso le voci degli attori, riprendendo l’antica idea del teatro greco di parlare attraverso la maschera. Così da far emergere la psiche, la voce interiore». Quella stessa voce interiore che, in 8 e ½, filtrata in un ricordo di infanzia, ripeteva “Asa-Nisi-Masa” a mo’ di formula magica: Asa-Nisi-Masa, o forse A-Ni-Ma, per dirla con Hillman e Jung.
Bibliografia
Federico Fellini, Il libro dei sogni, Mondadori Electa, Milano 2019
Federico Fellini, L’Olimpo. Il racconto dei miti, SEM, Milano 2017
James Hillman, Figure del mito, Adelphi, Milano 2014
James Hillman – Silvia Ronchey, L’ultima immagine, Rizzoli, Milano 2021
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