
Old – Tempus fugit
Se un film potesse vivere solo della forza delle sue premesse, per Old la partita sarebbe chiusa (e vinta) già ai nastri di partenza. Non ci sarebbe bisogno di molto altro perché l’idea di accelerare il tempo, di questo si tratta, è potente da qualsiasi angolazione la si voglia considerare. Con Old, M. Night Shyamalan, uno dei nomi più importanti nel cinema di genere americano degli ultimi due o tre decenni, offre un’onesta mediazione nell’eterna partita tra shock fisico e lavoro sull’atmosfera, insinua sfumature horror e sci-fi su una solida base thriller, gioca al piccolo esistenzialista ma senza esagerare e, soprattutto, imbastisce una riflessione etica che guarda al presente.
Eppure, il film disperde strada facendo parte del suo potenziale e non tutto risulta all’altezza delle aspettative. Perché c’è il tempo della storia e il tempo del film, e solo conciliandoli è possibile giustificare le premesse e sfamare l’emozione.

Sinossi breve: gente che prenota il resort tropicale e non guarda i commenti. Adattamento della graphic novel Castello di Sabbia di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters, il pomeriggio bizzarro di coppie con figli riunite dalla spiaggia segreta sbagliata. C’è Gael Garcìa Bernal all’ultimo valzer con Vicky Krieps, al ritorno divorziano. Ken Leung e compagna, il rapper Aaron Pierre, il chirurgo Rufus Sewell dalla pische ballerina e la moglie trofeo Abbey Lee, che è la cosa migliore del film per la forza ironica e macabra con cui il suo personaggio va a scontrarsi con tutta questa strana situazione. La meccanica del mistero resta oscura, una buona scelta: non si sa bene perché, ma trenta minuti sulla spiaggia valgono un anno di vita, sensazione abbastanza comune per chi abbia speso almeno una domenica di luglio sul litorale romano, ma questo Shyamalan non lo può sapere.
Old imbastisce un prologo svelto e poi si tuffa così nel mistero, senza preoccuparsi troppo di aggiustare i toni alla nuova normalità. L’umorismo è nero e implicito nel racconto, lo shock e l’orrore sono visibili. Qualsiasi parvenza di sottigliezza esistenziale prende però il largo e si perde all’orizzonte dal momento che il focus del film è fisico, il più dell’attenzione è sul segno lasciato sui corpi da questa impennata delle leggi della fisica. Che teoricamente dovrebbe costringere ogni personaggio a un rapido esamino di coscienza. La regia di Shyamalan ha buon gioco a indugiare sui bambini, hanno il conforto dell’anagrafe e il vantaggio di una traiettoria esistenziale più soddisfacente per quelle che sono le regole del film. Cresciuti, hanno il volto di Thomasin McKenzie e, soprattutto, Alex Wolff e Eliza Scanlen. Un amore consumato rapidamente.

M. Night Shyamalan illumina così, tramite l’effetto ottico alla base del suo anomalo thriller, la natura precaria ed effimera della nostra relazione con il tempo, con la vita. Tutto corre, fugge, alcuni riescono a venire a patti con la realtà, altri no. Così, raccontando di un corpo giovane che si riscopre improvvisamente adulto, ha qualcosa di interessante da dirci, misurando lo scarto che esiste tra un fisico maturo e una coscienza e un’emotività che invece restano un passo indietro. Certo, è pur vero che una scrittura più allusiva e sottile avrebbe giovato al racconto.
Ma la riflessione di Old non è solo di stampo universale. Quella di Shyamalan è anche una satira contingente su come la logica della produttività, nella società del benessere («a quale prezzo?» si chiede il regista dai tempi di The Village) e del capitale, imperi anche nel tempo libero fino a fagocitarlo, deformandolo secondo le sue storture. È infatti a partire da una vacanza in cui tutto è predisposto per soddisfare al meglio i desideri personali(zzati) dei villeggianti che comincia il paradosso di un tempo a uso e consumo di chi non potrà goderne.

Dunque, se da un lato Old non ha abbastanza forza per restituire il sottotesto spirituale della storia («cosa significa, a un livello puramente esistenziale, invecchiare?»), dall’altro riesce a infilare le grinfie della sua ironia corrosiva laddove guarda più al presente di una società ossessionata dal tempo, pronta a dare a quest’ultimo un costo ma nessun valore – ed è emblematico in tal senso il personaggio interpretato da Abbey Lee. Una società sulla quale Shyamalan torna a interrogarsi, riflettendo, senza soluzioni concilianti, sui limiti etici di un progresso perseguito ad ogni costo.
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