
La pietra dello scandalo – La passione di Cristo di Mel Gibson tra Girard e Eco
Sin dalla sua uscita nel 2004, The Passion of the Christ di Mel Gibson si è imposto come uno dei film più controversi della storia del cinema: racconto della Passione e della Morte di Cristo fino ad arrivare ad accennare la Resurrezione, The Passion ha sconvolto gli spettatori per il suo inaspettato mix di ossessione filologica per il linguaggio – tutto il film è recitato in parte in aramaico, in parte in latino, in parte in ebraico – e, soprattutto, per il paradossale realismo splatter delle immagini che ritraggono i supplizi a cui Gesù, dall’arresto fino alla morte in croce passando per la flagellazione, sarebbe stato sottoposto secondo il quadruplice racconto evangelico.
Soprattutto negli Stati Uniti d’America, ma anche in Italia e nel resto del mondo, l’uscita di The Passion fu accompagnata da dibattiti e polemiche accesissime: invano si era cercato di strappare un’opinione all’allora papa Giovanni Paolo II, mentre i critici critica specializzati, intellettuali di ogni sorta e spettatori generici si interrogavano tanto sul valore intrinseco del film, quanto sulla sua rappresentazione della violenza e sull’eventuale rappresentazione caricaturale che, a detta di alcuni, Mel Gibson avrebbe fornito dei sacerdoti ebrei che, come da racconto evangelico, avevano contribuito alla condanna a morte del Cristo.

Nell’ampio dibattito suscitato da The Passion, e tuttora mai del tutto sopito, due voci si sono distinte con la loro discesa in campo, in virtù di una particolare autorevolezza: due intellettuali, uno francese, l’altro italiano, non particolarmente inclini a parlare di fatti di cinema, ma che erano stati provocati da The Passion e ancor di più dal suo contraddittorio successo ad esprimere un giudizio a riguardo. Da un lato, l’antropologo René Girard, dall’altro, il filosofo, semiologo e medioevalista Umberto Eco.
René Girard, nato ad Avignone nel 1923 e morto a Stanford nel 2015, è stato uno dei più influenti e originali pensatori francesi del secolo scorso. La stessa definizione di “antropologo” è in realtà manchevole di fronte a un percorso organico e al tempo stesso estremamente eclettico, capace di riunire sistematicamente “strumenti d’analisi” ispirati “all’antropologia, alla storia, alla storia della letteratura, alla psicologia, alla filosofia, o alla teologia”, come si pregiava Girard stesso in uno dei suoi ultimi lavori teorici. Il connubio tra violenza e sacro è al centro della sua opera, stretta tra due fuochi: da un lato, un’idea essenzialmente imitativa della natura umana, sempre potenzialmente competitiva e mimetica; dall’altro, l’intuizione che il sacrificio di un capro espiatorio, una vittima arbitrariamente scelta all’interno di una comunità in crisi, sia stato commesso e occultato all’inizio di ogni civiltà umana; questo sacrificio, nascosto ma mai del tutto “rimosso”, continuerebbe a riverberarsi in molte espressioni della cultura umana.
Il modello antropologico di Girard rappresenta anche una curiosa forma di apologetica cristiana: Girard, credente e praticante, vedeva nei Vangeli l’unico vero testo sacro capace di far luce sulla “violenza vittimaria” senza cadere nel vittimismo come faranno certi antieroi di Dostoevskij o, per vie traverse e in parte folli, lo stesso Nietzsche. Ecco spiegato il suo interesse per The Passion, che si dispiegò sia in un’intervista televisiva trasmessa dal canale francese KTO, che in un intervento scritto per Le Figaro, pubblicato a marzo 2004 e ripreso in Italia da L’Espresso.

Sin dalle prime righe, René Girard non nasconde la sua profonda ammirazione per il film di Mel Gibson. Di fronte alle polemiche sull’eventuale antisemitismo della pellicola – particolarmente accese quelle del New Yorker, che accusò The Passion di essere vicino alla propaganda nazista – Girard ribatteva deciso che “nulla giustifica queste accuse” e che “per Mel Gibson, la morte di Cristo è un fardello che grava sulle spalle dell’intera umanità” – a partire da sé stesso. Per scagionare The Passion dalle accuse di antisemitismo, Girard osservava anche che “quando il film si allontana leggermente dalla fonti evangeliche, il che accade solo raramente, non è per demonizzare gli ebrei, ma per dare risalto alla pietà che Gesù ispira in alcuni di loro”, a figure come Simone il Cireneo o la Veronica. L’autore de La violenza e il sacro non sembra invece interessato a questionare il modo in cui altri personaggi ebrei vengono rappresentati, a partire dal sommo sacerdote Caifa.
Girard non vuole però limitarsi a fare un pezzo in difesa di un film che ha apprezzato: il suo intento è più ampio e, ricollegandosi a passaggi importanti della sua opera saggistica, e segnatamente a Vedo Satana cadere come la folgore, si interroga con sguardo antropologico sulle polemiche che il film ha saputo suscitare. “Più le cose si calmano, più diventa chiaro, ripensandoci, che il film ha innescato una vera e propria crisi di nervi nei più importanti mezzi di comunicazione del globo”. Girard, tutt’altro che ingenuo, sa bene quale effetto hanno portato queste infinite polemiche: le sale intenzionate a proiettare The Passion si sono moltiplicate, tant’è vero che alla fine della sua theatrical run il film di Gibson risultò essere, del tutto a sorpresa, uno dei film di maggiore incasso dell’intero 2004. Girard sa bene di quanto le polemiche fanno bene al mercato, e, entro una certa misura, possano essere innescate dal sistema stesso: lungi dal santificare il regista, non esclude che Gibson abbia dato prova di un “superiore fiuto machiavellico” decidendo di proiettare il film in alcuni eventi privati per importanti personalità del mondo giornalistico e religioso. Ai fini del suo discorso, però, questo è secondario: Girard, complesso erede di Freud, vede nelle polemiche che hanno compagnato l’uscita di The Passion una riproposizione di quella stessa resistenza alla rivelazione evangelica che, secondo il sistema più volte esposto nelle sue opere saggistiche, caratterizza con alterne vicende la storia occidentale da quasi duemila anni.

E se “l’accusa di antisemitismo ha perso terreno dopo l’uscita del film”, proseguiva Girard nel prosieguo del suo articolo, “i detrattori dei film si sono raccolti intorno ad un secondo capo di accusa, la violenza eccessiva che secondo loro caratterizzerebbe la pellicola”. Con un curioso chiasmo, però. “Tutti coloro che sono normalmente assuefatti alla violenza spettacolare, o che vedono, nella sua continua evoluzione, altrettante vittorie della libertà sulla tirannia, si scoprono a condannarla, nella pellicola di Gibson, con straordinaria veemenza. D’altra parte, tutti coloro che si sentono in dovere di denunciare la violenza cinematografica – senza che le loro critiche abbiano mai un minimo effetto – non solo tollerano questo film, ma frequentemente ne restano ammirati”, osservava l’antropologo, inserendo chiaramente anche sé stesso, in questo secondo gruppo. Un chiasmo non dissimile si riproponeva a suo dire anche a un altro livello, ancora più macroscopico, di lettura: oltre alle accuse di antisemitismo, o di pornografia della violenza, alcuni critici sono arrivati a tacciare il film di Gibson di blasfemia, “spingendo l’imitazione dei loro avversari fino al punto di far entrare la religione nelle loro diatribe”, secondo Girard.
“Quale è la forza invisibile, ma suprema, che manipola tutti questi critici senza che nemmeno se ne rendano conto? Credo che sia la Passione stessa”. Mel Gibson ha senza dubbio filmato la Passione con “realismo implacabile”, ma non è colpa sua se certo “gusto dolciastro di Hollywood” ha ritratto un Gesù alla candeggina, con i capelli biondi e sempre pettinati, ed “occhi tanto azzurri che mai potrebbero essere sottoposti agli abusi dei soldati romani”. Certi peplum biblicheggianti alla De Mille o anche alla Zeffirelli hanno operato, secondo le logiche girardiane, un’operazione di occultamento e idealizzazione della verità della Passione non dissimile, per gravità di quanto hanno voluto insabbiare, al classico nascondimento operato dai miti, alla pudenda origo di cui, nella sua particolarissima lettura antropologica, trasudano tutte le mitologie del mondo all’infuori della Bibbia e dei Vangeli nello specifico. Contro tutti i miti e anche contro tutti i Gesù ingenuamente hollywoodiani, The Passion dimostrerebbe invece che “per ridare alla Crocifissione la sua forza scandalosa è sufficiente ritrarla per come essa è, senza aggiungere o togliere nulla. Mel Gibson è riuscito completamente in questo tentativo?”, è a questo punto la domanda che si fa Girard. “Non del tutto certamente, ma ci è andato tanto vicino da gettare scompiglio tra i conformisti”.

Di tutt’altro avviso era invece Umberto Eco. In un articolo intitolato provocatoriamente Giù le mani da mio figlio!, pubblicato originariamente anch’esso su L’Espresso e poi incluso nella raccolta A passo di gambero recentemente ripubblicata da La Nave di Teseo, Eco affermava seccamente che The Passion “non è un film religioso”, ma “un film che intende guadagnare molto denaro offrendo agli spettatori tanto sangue e tanta violenza da far apparire Pulp Fiction un cartone animato per bambini della scuola materna”.
Se la posizione di Girard era prevedibile per chiunque conoscesse il complesso della sua opera e l’ispirazione cristiana che ne era alla base, più particolare è la prospettiva da cui si muove Umberto Eco. Come approfondito in un’intervista con Vittorio Messori, Eco era cresciuto in un ambiente cattolico, ma si era progressivamente staccato dalla fede cristiana – in una “meditata apostasia”, diceva lui – in virtù di numerose obiezioni filosofiche ai capisaldi della religione. Nondimeno, Eco era uno dei maggiori conoscitori a livello internazionale della teologia tomista e scolastica, e da questo background parte per criticare quella che ritiene essere la massima infedeltà stilistica, da parte di Mel Gibson, nei confronti del testo sacro. “Della sublime reticenza dei Vangeli questo film non ha nulla”, proseguiva infatti Eco nel suo articolo: se “i Vangeli si limitano a dire che Gesù è stato flagellato (tre parole in Matteo, Marco e Giovanni, nessuna in Luca), Gibson lo fa prima battere con le canne, poi con cinghie irte di chiodaglia, infine con mazzapicchi”. L’unico punto di contatto con Girard sta nel sostanziale rifiuto delle polemiche sull’antisemitismo del film, per quanto Eco ci tenga a sottolineare che “con gli ebrei, di questi tempi, occorrerebbe procedere con maggior cautela”: ma in un film così estremizzato e macchiettistico, in questo western in Terra Santa, lamentarsi che un personaggio come Caifa sia ritratto negativamente vuol dire ignorare la cornice complessiva del film.

Il giudizio negativo su The Passion però restava immutato, ed essenzialmente vincolato a sacre ragioni di stile. “Immaginate se Manzoni, invece di accogliere la lezione dei Vangeli, lasciandoci solo sospettare quel che era accaduto alla Monaca di Monza, con quella sublime reticenza (‘La sventurata rispose’), ci avesse mostrato la poveretta mentre faceva lo spogliarello, si dava a ripetute fellazioni, si faceva sodomizzare col sapone e sottoponeva lo sciagurato Egidio a punizioni sadomaso, indossando stivaletti russi da Venere in pelliccia”. Tutto si riduce, alla fine, a un calcolo commerciale, che gli incassi del film hanno puntualmente confermato. “Gibson coglie al balzo l’idea che Gesù debba aver sofferto, e così come Poe pensava che la cosa romanticamente più commovente fosse la morte di una bella donna, intuisce che lo splatter più redditizio sia quello in cui si mette il Figlio di Dio in un tritacarne”.
A detta di Eco, l’unico momento del film in cui si prova una certa emozione e “si intravede un soffio di quella trascendenza che al film fa sciaguratamente difetto” c’è quando, proverbialmente, alla morte di Gesù si squarcia il velo del Tempio. “Sì, a quel punto il Padre fa sentire la sua voce. Ma lo spettatore di buon senso (e, spero, il credente) avverte che a quel punto è con Mel Gibson che il Padre si è incazzato”. Mentre Gibson da qualche anno a questa parte continua ad annunciare il sequel di The Passion, intitolato nientemeno che The Resurrection (!) e da lui stesso descritto come un “trip acido”, l’ironia di Eco resta un buon esorcismo per ogni spirito di parte che abbia condannato, o idolatrato il film.
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