
Morte a Venezia: uno sguardo lungo cinquant’anni
Rivedere Morte a Venezia oggi, in un periodo storico nel quale il contatto umano è ridotto ai minimi termini per la salvaguardia di quella che Thomas Mann avrebbe forse chiamato “salute pubblica”, fa uno strano effetto. Il girovagare del professor von Aschenbach per le calli di Venezia, la manifestazione progressiva dei sintomi della pestilenza, le azioni per contenerla e il rifiuto di prendere atto della gravità di una situazione ormai completamente sfuggita di mano, risuonano fin troppo bene con i tempi che stiamo vivendo. Eppure, forse, leggere in questi termini il film di Visconti – proprio nel cinquantesimo anniversario della sua uscita italiana – è eccessivo. C’è da chiedersi quale sia la malattia che infesta il film, quale tensione sotterranea percorra le immagini che lo compongono.

Tutto incomincia da una scena, che anche a distanza di anni non smette di colpire per il suo valore programmatico. Von Aschenbach è in attesa della cena in un ampio salone. Attorno a lui si raccolgono tutti i clienti dell’albergo, rappresentanti di una borghesia decadente e già decaduta, che qui consuma i suoi ultimi fuochi. La macchina da presa ci mostra il protagonista nel suo abito da sera, intento a leggere distrattamente un giornale; non c’è vero interesse in quest’azione, come in tutte le altre che ha compiuto sino a quel momento. Poi, staccandosi da lui, il regista compie un’ampia panoramica sul salone e scorre delicatamente su quell’insieme di volti e corpi in modo molle e distratto, nulla cattura la sua (e – conseguentemente – la nostra attenzione). Poi, come attirata da una sorta di strano magnetismo, ritorna su Aschenbach. È qui che i suoi occhi incontrano, per la prima volta, il giovane Tadzio.
Un po’come accadeva nella sequenza iniziale di Ossessione, in cui Visconti costringe lo spettatore a lasciarsi sedurre – come la protagonista del film – dall’apparizione improvvisa di Massimo Girotti, anche qui le forme linguistiche adoperate dal regista traducono visivamente la dimensione emozionale degli sguardi. La panoramica e lo zoom diventano, da questo momento, gli elementi fondamentali del film, quelli che orientano la visione e mimano i turbamenti del protagonista. Lo sguardo e il corpo di Aschenbach, fino ad allora sospesi in una dimensione fantasmagorica (emblematica è in questo senso la sequenza del suo arrivo a Venezia, passeggero di una nave quasi spettrale) si animano in un’incessante successione di micromovimenti degli occhi e delle mani (si pensi ad esempio al quieto compiacimento che il protagonista prova nel vedere Tadzio accettare il bacio di un compagno di giochi).

Quello di Aschenbach, però, non è semplice voyeurismo, piacere nel guardare l’oggetto del proprio amore. È semmai ricerca spasmodica di un contatto, tentativo incessante di incrociare lo sguardo di Tadzio per vedere ricambiato il piacere provato. E quando questo scambio finalmente avviene ecco che – nel vedersi restituito il suo gesto scopico – Aschenbach si ritrova denudato, violato, indifeso. È la violenza dello sguardo di colui che amiamo a farci più male e – nel caso di Aschenbach – ad innescare un riguardarsi o, per meglio dire, un guardarsi dentro. I flashback che punteggiano il film e che traducono in senso estetico il dissidio che attraversa il protagonista sono emblematici in questo senso e forniscono una chiave di lettura ai continui turbamenti del musicista, sospeso fra il desiderio di abbandonarsi alle emozioni e il tentativo sempre più arduo di respingerle.
Non è casuale che, nel finale del film, mentre i segni dell’epidemia di colera che avvolge Venezia diventano ormai inequivocabili, anche Aschenbach sembri assecondare sempre di più il proprio desiderio nei confronti di Tadzio. Il trucco grottesco non è solo un tentativo di ritrovare la giovinezza perduta ma anche (soprattutto?) un modo per riavvolgere il tempo, nella speranza di poter ri-vivere la propria vita in modo diverso. Ma, come appare chiaro sin dal primo momento, quella sarà prima di tutto una maschera di morte. I gesti attenti del barbiere sembrano quelli di un tassidermista che abbellisce un animale da imbalsamare, o di un truccatore che prepara il cadavere per essere esposto nella bara.

Quest’ultima maschera riassume tutte quelle portate da Aschenbach nel corso della propria vita ed è forse quella che più assomiglia al vero volto del tormentato compositore. Ma è troppo tardi: abbandonatosi sulla sedia sdraio lo vediamo guardare per un’ultima volta il profilo di Tadzio in mare, colto a fatica dalla sua vista ormai annebbiata. La sua figura, ormai poco più di una linea inghiottita dalla luce abbacinante del sole, è l’ultima immagine che il musicista vede, un oggetto ormai quasi completamente mentale. Aschenbach muore per l’epidemia che avvolge Venezia, ma sin dal primo sguardo rivolto a Tadzio è evidente allo spettatore che quella ferita lacerante è destinata a non rimarginarsi. La vera malattia di Aschenbach, ciò che lentamente ma inesorabilmente ne stravolge l’esistenza e finisce per consumarne ogni certezza è, in fondo, proprio l’amore. Un amore immaginato, sognato e consegnato alla dimensione visiva, che Mann ha splendidamente sintetizzato:
Niente è più singolare, più imbarazzante che il rapporto tra due persone che si conoscono solo attraverso gli occhi, che si vedono tutti i giorni a tutte le ore, si osservano e nello stesso tempo sono costretti dall’educazione o dalla bizzarria a fingere indifferenza e a passarsi accanto come estranei, senza saluto né parola. Fra di loro c’è inquietudine ed esasperata curiosità, l’isteria di un bisogno insoddisfatto, innaturale e represso di conoscersi e di comunicare e soprattutto una sorta di ansiosa attenzione.
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Aschenbach non è musicista ma scrittore. Il protagonista del romanzo Doctor Faustus, lui sì, è un compositore. A parte questa svista questa analisi è molto utile e stimolante. Grazie.