
Una metamorfosi tra senso e suono – Intervista a Roberto Latini su In Exitu
Di Ludovico Cantisani
Roberto Latini (Roma, 1970), formatosi con Perla Peragallo presso lo storico Mulino di Fiora, è tra i più apprezzati registi e performer teatrali contemporanei. Fondatore assieme a Gianluca Misiti e Max Mugnai di Fortebraccio Teatro, ha vinto nel 2011 il Premio Sipario, nel 2014 il Premio Ubu come Miglior attore e performer italiano per Il servitore di due padroni di Antonio Latella, nel 2015 il Premio della Critica per il suo adattamento de I giganti della montagna; nel 2017 ha nuovamente vinto Ubu per Il Cantico dei Cantici, di sua regia. roberto latini in exitu
Andato in scena per la prima volta nel 2019, prodotto dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi in collaborazione con Napoli Teatro Festival Italia, Associazione Giovanni Testori e Armunia – Festival Inequilibrio, il suo nuovo monologo In Exitu, tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Testori, è andato in scena alla Biennale Teatro 2021 ed è stato replicato domenica 19 settembre al festival Attraversamenti Multipli di Roma.
Fra le opere più note di Testori, In Exitu racconta, per la massima parte in prima persona, le ultime ore di vita di Gino Riboldi, un giovane drogato che si è rifugiato nei bagni della stazione di Milano: il testo di partenza, già di suo ai limiti dello sperimentalismo linguistico, è stato ulteriormente approfondito da Latini con particolari ricerche di vocalità e linguaggio.

Cosa ti ha avvicinato al romanzo di In Exitu di Giovanni Testori, e come è nato l’idea di adattarlo per il palcoscenico?
Il mio spettacolo tratto da In Exitu è figlio di una commissione che ho ricevuto da Federico Tiezzi e Sandro Lombardi: io mi sono aggiunto alla loro compagnia da un paio d’anni. Federico e Sandro già hanno frequentato le opere di Testori largamente e ripetutamente nel corso della loro ricerca, e mi hanno invitato a lavorare proprio su In Exitu.
In quali direzioni si è mosso il tuo adattamento del romanzo?
Il mio adattamento è stato sanguinoso, innanzitutto perché In Exitu è un romanzo di una bellezza infinita, e togliere pezzi e pagine intere è stato più crudele di tante altre volte. In questa crudeltà il testo originale si è accorciato: in questo caso la parola riduzione è esatta, lo spettacolo è molto più breve del romanzo in termini di lunghezza. È anche vero che in una storica serata alla stazione di Milano poi replicata al Teatro La Pergola di Firenze lo stesso Testori, con Franco Branciaroli, aveva presentato In Exitu di fronte a un pubblico, “tradendo” il libro a loro volta, in qualche modo, nella traduzione scenica; nel mio adattamento, ho cercato di accompagnare la narrazione mantenendo la progressione che c’è nel romanzo, senza nessun cortocircuito drammaturgico, per cui gli eventi sono nello stesso ordine dell’originale. roberto latini in exitu

Sin dal titolo che richiama i salmi, In Exitu colloca la vicenda del “tossico” Gino Riboldi in una dimensione, se non religiosa, trascendente: “l’uscita dalla vita e da sé stesso” di Gino assume i contorni di un’estasi. In che modo nell’allestimento scenico hai trasceso il realismo dell’ambientazione della morte in stazione di Gino?
Nel suo allestimento standard, lo spettacolo prevede un tappeto di materassi che fanno da palcoscenico: io sono costretto fisicamente a muovermi su questo terreno che mi piega e mi condiziona, affaticandomi e ispirandomi costantemente anche nei movimenti, perché è sempre possibile inciampare. Nell’ultima replica a Roma, per il festival Attraversamenti Multipli, non era possibile allestirlo così e abbiamo creato una scenografia ad hoc, più semplice. roberto latini in exitu
Secondo te, quanto il romanzo e lo spettacolo si riallacciano a una certa nozione di ultimità evangelica?
Già nel testo di Testori compaiono qua e là echi cristologici che si rifanno proprio a un immaginario da Santo Sepolcro, da quem quaeritis, degno di un ciclo medioevale. Un ulteriore elemento di trascendenza c’è anche nel finale del romanzo, che poi è lo stesso dello spettacolo, in cui la “lingua pura” di Testori sembra riposarsi in un italiano inaspettato: quanti l’indomani si affrettarono ai treni lo videro, coperto da un lenzuolo bianco la barella attraversò tutta la stazione, con una sorta di luce che pareva sollevarsi dal cadavere. Tutto l’immaginario linguistico testoriano precipita qui in un piccolissimo momento di italiano puro e disarmato, in cui lo stesso Testori depone il linguaggio e le parole dalla croce a cui per tutto il resto del romanzo stanno “appesi”.

Nelle tue note di regia per la messa in scena dello spettacolo a Venezia scrivevi: “il corpo-testo testoriano pulsa parole che sono sangue. La lingua è ferita dalla sintassi, diventa linguaggio. Il corpo-testo è le sue articolazioni, un movimento incessante, irrefrenabile, inesorabile”. In che senso la lingua pura di Testori “non potremmo tradurla, non potremmo tradirla”?
A Venezia ci siamo dovuti porre la questione se sottotitolare o meno lo spettacolo, e alcune affermazioni del dépliant sono nate anche per spiegare la nostra scelta di non prevederli: gli organizzatori traducono tutti gli spettacoli in inglese proiettando dei soprattitoli ad uso del pubblico internazionale della Biennale, ma per In Exitu è stata necessaria una licenza. Avrei dovuto tradurlo prima in italiano e poi in inglese, e sarebbe stato ridicolo. Anziché sottotitolarlo con quello che scrive Testori parafrasato, ho pensato che dovevamo sforzarci a raggiungere un momento in cui la parola arriva ad essere “respirata”, in cui arriva ad essere puro suono, come tanti passaggi del libro già sulla carta sembravano reclamare.
Foneticamente parlando quali erano gli aspetti più potenti del romanzo di Testori?
Pensiamo solo all’impasto linguistico della prosa sua prosa, nei confronti della quale, per il semplice fatto di non provenire dalla provincia milanese dove Testori è nato e cresciuto, io stesso non ho l’orecchio: ma non si può neanche dire che In Exitu sia scritto in dialetto lombardo, è un misto fra italiano, dialetto, latino e francese. roberto latini in exitu

Come vivi sul palco la recitazione di questa parlata a te estranea? In che senso, come lasciano intendere le note di regia, hai individuato nel testo di Testori una differenza fra lingua e linguaggio?
Incontro in scena la parlata del milanese Gino Riboldi senza avere con essa una storia, una frequentazione passata. Recitando In Exitu mi piace molto il fatto che anche la parola reciti, vada in scena. Da un punto di vista drammaturgico e anche semplicemente semantico, per me l’attrazione – e non l’astrazione – verso le parole e verso il testo “drogato” di Testori è data proprio dal fatto che queste si pongono fluidamente in una metamorfosi tra senso e suono. roberto latini in exitu
Alla fine il linguaggio di Testori si fa produzione di un significato trascendendo le singole parole e ogni tradizionale “significante”…
In alcuni materiali di presentazione ho parlato anche di un “imbarazzo tra suono e senso”. Dire sul palco il testo di Testori vuol dire davvero suonarlo, in certe parti: ho proprio la sensazione di essere detto dal testo in alcuni momenti, e per dirlo ho bisogno di lasciar andare le parole – non trattenerle, perché tanto non posso farlo.

Sulla tua attuale ricerca sulla sonorità e sulla voce quanto hanno influito le sperimentazioni radiofoniche e la collaborazione che hai avviato con Rai Radio3 alla fine degli anni novanta?
Moltissimo. Quel periodo a Radio3 mi ha dato enormi possibilità a livello di mezzi tecnici, che non ho mai potuto avere né prima né dopo, recitando con certi microfoni che nemmeno adesso posso gestire da solo. Negli studi della Rai tutto è possibile, in termini di qualità dell’acquisizione sonora: ciò che riguarda invece la ricerca di una drammaturgia del suono è un’esperienza che non ho fatto alla Rai, ma che ho proseguito assieme ai miei compagni di Fortebraccio Teatro. Certo però sono stato “viziato” dai mezzi tecnici che potevo trovare in Rai, e ho sfruttato al massimo questa possibilità di training: per diversi mesi mi sono dovuto recare agli studi radiofonici con una cadenza settimanale, e questo è stato davvero un esercizio fondamentale.
Quanto può aver influito il modello del percorso teatrale e operistico di Carmelo Bene, e le sue riflessioni teoriche sulla vocalità dell’attore, sulla tua ricerca sonora e teatrale tout court?
Carmelo Bene mi ha influenzato moltissimo – anche involontariamente. Credo, un po’ misticamente, che il Pinocchio di Carmelo Bene sia stato il primo spettacolo che io abbia visto nella mia vita, grazie alla scuola: io però da bambino andavo a scuola dalle suore, e mi sembra difficile che loro ci portassero a vedere uno spettacolo di Bene. Poco importa però: ricordo vero o artificiale che sia, io me lo tengo così! roberto latini in exitu

Oltre a questa visione della voce come partitura, diversi tuoi spettacoli sembrano avere un corrispondente o un’eco nella teatrografia di Bene, dal Caligola ai ricorrenti adattamenti shakespeariani…
Il mio monologo sul Caligola di Camus e gli adattamenti shakespeariani dipendono in larga misura dalla frequentazione e dagli insegnamenti di Perla Perragallo, la mia insegnante di teatro, da cui ho avuto un imprinting originale: lei era molto vicina sia a Leo de Beradinis che a Carmelo Bene stesso. L’ambiente di sviluppo del mio pensiero e di tutta la mia ricerca è stato la sua scuola, dove io sono arrivato “senza saperne mezza”. Perla apparteneva alla stessa dimensione di C.B., e questo può spiegare alcune mie scelte successive in termini di adattamenti di testi preesistenti, ma al tempo stesso non mi permetterei mai di accostare i miei spettacoli a quelli di Carmelo Bene.
In generale, quando lavori su un adattamento, fino a che punto il tuo spettacolo può andare verso una riscrittura critica dell’opera di partenza, come faceva Bene, e quanto invece è un’amplificazione di alcuni singoli aspetti del testo di base?
Quella che cerco di fare io la non è un’operazione letteraria, e non voglio fare una critica della ragion pura, o impura, attraverso il mio teatro: proprio perché c’è stato qualcun altro che l’ha fatto, a cominciare da Carmelo Bene e Leo de Beradinis di cui sopra. Questi grandi del Novecento hanno trasformato il concetto di classico in una forma di riscrittura, anche critica, della fonte originaria. Nel mio percorso personale, io penso che un adattamento sia l’occasione per un’occasione scenica, per una ri-proposta teatrale, non (più) per reinterpretare un testo di partenza attraverso una tesi e un’antitesi.

Per restare in territorio beniano, fino a che punto pensi che la phoné possa farsi carica di significato, anche se la parola-significante viene distorta e sviata dall’amplificazione?
Da questo punto di vista, l’amplificazione fa una cosa fondamentale, anzi due: da una parte aumenta la voce, dall’altra dà anche una percezione di ritorno. L’amplificazione teatrale a dirla tutta non aumenta la voce dell’attore, aumenta l’ascolto. Questa possibilità è giocata molto nel mio allestimento scenico di In Exitu: non tutto il testo viene detto al microfono, per alcune parole io lo sfioro soltanto o lo metto proprio da parte, come se si dimettessero dall’essere amplificate e amplificabili. Questo mi consente di creare un ulteriore livello: il microfono non amplifica solo la parola e la voce, amplifica anche il silenzio, creando ulteriori orizzonti. Un silenzio amplificato è un elemento profondamente scenico e specificatamente teatrale, e ci porta di fronte a quel tempo che dobbiamo imparare: tempo e temperatura – forse è questo il campo della disputa delle parole.
In che senso?
Con “temperatura” intendo dire innanzitutto la temperatura del testo, che porta la voce ad essere sollecitata in un determinato modo. Ma questa temperatura richiede di essere inserita in un ritmo e in un tempo, che è anche un tempo d’ascolto; e non conta soltanto la menzione, la “mia” declamazione, ma anche la ricezione da parte del pubblico. Devo dire che è molto interessante, dal palco, stare per un attimo in silenzio, in attesa che dal pubblico e dall’amplificazione arrivi il ritorno, della mia voce e dello spettacolo nel suo insieme.
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