
Wandering Rocks – Tra Kubrick e Joyce con Umberto Eco
Il saggio Apocalittici e integrati è uno dei più noti dell’Umberto Eco semiotico, una raccolta di saggi ad essere precisi, incentrati tutti sulla “cultura di massa” e sulla sua ricezione critica. In ognuno di questi saggi, spaziando dai fumetti alle canzoni pop con uno sguardo semiotico e mai banalizzante, Eco dissemina delle idee che da sole basterebbero a tenere impegnati diversi studiosi per anni, alla ricerca di nuovi stimoli interpretativi tra un’interpretazione decostruttiva di Superman e un’impareggiabile lettura dei fumetti di Steve Canyon; ma è in una nota a piè di pagina del lungo capitolo su La struttura del cattivo gusto che Eco lascia cadere una riflessione profondamente illuminante sul cinema.

Lungo tutto il capitolo, Eco è andato alla ricerca della definizione più scientifica possibile del “cattivo gusto” inteso come kitsch e, dopo una serie di ipotesi interpretative sempre sorprendenti riconosce che anche nei messaggi rivolti a una comunicazione di massa ci può essere un “equilibrio pressocché perfetto” delle forme e delle strutture che fa sì che “l’attenzione del fruitore arriva a spostarsi sulla perfezione della sua struttura”.
Di più: un bene di consumo rivolto alla produzione e alla comunicazione di massa – quale può essere anche un film – può anche innestare dentro di sé degli stilemi provenienti dalla cosiddetta alta-cultura. «Si stabilisce così una dialettica tra un’arte tesa alle esperienze originali, e un’arte tesa all’assestamento delle acquisizioni, in modo che talora è la seconda a realizzare le condizioni fondamentali del messaggio poetico, mentre la prima costituisce solo un coraggioso tentativo di realizzazione», conclude il semiologo. È al termine di questo paragrafo che Eco inserisce la sua nota parlando di un regista che, nel 1964 in cui Apocalittici e integrati vide la luce, era ancora poco più che un nome fra i tanti che affollavano il panorama cinematografico statunitense:
“Si pensi a un film come Rapina a mano armata di Stanley Kubrick: la costruzione di una vicenda per segmenti che riproducono eventi svolgentesi tutti nello stesso istante – il complesso generale degli eventi essendo visto da tutti questi punti di vista – non è originale: la si ritrova nel capitolo joyciano dei Wandering Rocks, nello Ulysses”

Quello di accostare un capolavoro della letteratura moderna a quello che, per quanto innovativo, era un noir di cassetta è un classico colpo di scena “alla Umberto Eco”, e ancor più forte doveva apparire nel 1964 quando Stanley Kubrick ancora non era riconosciuto come uno dei massimi autori della cinematografia mondiale.
La lettura che Eco fa di Rapina a mano armata è quindi particolarmente vergine, dal momento che non è viziata dalla consapevolezza di tutte quelle innovazioni al linguaggio cinematografico che Kubrick farà da 2001: Odissea nello Spazio in poi: il nostro più grande semiologo semplicemente ha l’accortezza di prendere atto che Kubrick forse per primo ha reso esplicita una potenzialità espressiva del cinema che già le teorie di Ejzenstejn implicavano, la possibilità di narrare lo stesso evento, anche in momenti diversi del film, da una plurivocità di punti di vista diversi, se non divergenti.

Certo, è difficile pensare che Kubrick, scrivendo la sceneggiatura di Rapina a mano armata, avesse in mente di trasporre un device narrativo di Joyce su pellicola: la geniale scelta registica compiuta da Kubrick presuppone però un cambio nella sensibilità narrativa degli artisti, che proprio a Joyce fa capo. Del resto, se quello fra Ejzenstejn ed Einstein non è un gioco di parole fin troppo facile, anche le rivoluzioni stilistiche e narrative operate dall’Ulisse di James Joyce, per non parlare di quelle linguistiche, hanno molto a che fare con quella “crisi dei fondamenti” della scienza, della tecnica e della stessa filosofia che si era consumata all’inizio del Novecento. Se Rapina a mano armata reca ancora le ultime tracce di quella frammentazione, il film di Kubrick a differenza del romanzo di Joyce ha anche la grazia di avvicinare una certa nozione di relativismo e di inter-temporalità a un pubblico ben più ampio:
“Kubrick riceve lo stilema quando ormai è stato parzialmente acquisito dalla sensibilità colta, e quando già la letteratura lo aveva probabilmente mutuato da tecniche cinematografiche: divulga un modo di vedere le cose a livello popolare, abitua il pubblico ad accettare lo stilema come mezzo espressivo consueto, piega un modo di formare alle esigenze di un prodotto di consumo, ma rende in tal modo il prodotto di consumo così strutturato, necessario in ogni suo aspetto, da farlo distinguere tra tutti gli altri film sul gangsterismo”
In ultimo, secondo Umberto Eco con Rapina a mano armata Kubrick «fa un’opera d’arte che ha tutte le caratteristiche del messaggio poetico, dato che ormai la si va a rivedere non per sapere come vada a finire la storia, ma per compiacersi delle proprietà strutturali della comunicazione».
Al tempo stesso “opera di comunicazione di massa” e piccola rivoluzione copernicana del cinema a prescindere dal genere, Rapina a mano armata nella lettura di Eco rappresenta una “popolarizzazione” tutt’altro che volgarizzata delle grandi innovazioni portate da Joyce alla narrativa. Se la struttura emerge quasi a scapito della storia, poco male: è il segno di un mutamento di tempi anche per il grande pubblico, che a poco a poco sta imparando se non a parlare quantomeno a capire il linguaggio specifico della semiotica e i suoi (meta)codici.

In realtà, quella che Umberto Eco traccia tra Kubrick e Joyce non è una corrispondenza isolata, nella storia della critica. Anche un pezzo da novanta della critica statunitense dal calibro di Roger Ebert, recensendo per il Chicago Sun Times il film postumo di Kubrick, Eyes Wide Shut, volle lasciare un accenno all’Ulisse di Joyce, per quanto la pellicola fosse ufficialmente tratta dalla Traumnovelle di Arthur Schnitzler.
Secondo Ebert, Eyes Wide Shut è “un sogno erotico ad occhi aperti sulle occasioni mancate e sulle possibilità lasciate cadere”: un film con “la struttura di un thriller”, ma la sostanza di un incubo. Dopo averci presentato una coppia della New York bene in apparenza affiatata e felice, i coniugi Hartford interpretati da Tom Cruise e Nicole Kidman, Kubrick ci mostra il loro matrimonio entrare in crisi quando Alice, sotto l’effetto della marijuana, confessa al marito di aver avuto fantasie di adulterio con un altro. Con la scusa di un impegno di lavoro Bill Hartford lascia la casa in piena notte, e, in preda alla gelosia, inizia una lunga passeggiata fra le vie di New York. “È qui che comincia la sua lunga avventura”, commentava Ebert, “che ha dei parallelismi con l’Ulisse di Joyce nel Nighttown oltre che con After Hours di Scorsese”.

Il riferimento che Ebert lascia cadere en passant merita di essere meglio sviscerato. “L’Ulisse di Joyce nel Nighttown” è un riferimento al quindicesimo capitolo del romanzo, nel quale il protagonista Leopold Bloom raggiungeva il più giovane Stephen Dedalus nel quartiere a luci rosse di Dublino, chiamato appunto Nighttown. Dal ritrovo dei due seguivano alcune delle pagine più dense di giochi di parole, logorroismi, allucinazioni e pastiche verbali di tutto quanto l’Ulisse, strutturate peraltro per la maggior parte sotto forma di un testo teatrale. Che tematicamente il quindicesimo capitolo dell’Ulisse possa essere accostato ad Eyes Wide Shut e al suo immaginario è chiaro; dall’altro lato, più che la logorroica goliardia di quel passaggio del romanzo l’ultimo film di Kubrick sembra condividere con l’Ulisse quel tratto ossessivo e torbido di gelosia che tanto Bill Hartford quanto Leopold Bloom provano nei confronti della propria moglie. Per entrambi la moglie e la casa rappresentano dei veri e propri punti di fuga, dove anelano di ritornare ma al tempo stesso si sentono respinti dalle rispettive consorti, che diventano così anche il motore primo delle loro peregrinazioni urbane – con la differenza importante che Molly Bloom tradisce fisicamente Leopold, la Alice di Nicole Kidman solo nel pensiero.

Un’ulteriore corrispondenza, più scontata, tra Joyce e Kubrick deriva semplicemente dal riconoscere che i due sono stati i migliori ri-scrittori dell’archetipo di Ulisse nel Novecento, facendo reincarnare l’eroe greco l’uno in un anonimo ebreo irlandese di inizio secolo, l’altro in un astronauta di quello che allora era il futuro. Ma poi l’Ulisse di Joyce e 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick prendono vie molto diverse e, per quanto entrambi continuino il gioco delle corrispondenze anche per altri dei personaggi omerici – l’occhio di HAL 9000 ci riporta al ciclope Polifemo, che nell’Ulisse si reincarna in un antisemita incontrato da Bloom in un bar – sarebbe sterile insistere in questi giochi letterari.
Ciò che davvero può ancora accomunare Joyce e Kubrick, per restare nell’ottica semiotica tanto cara ad Eco, lo si può individuare nel loro essere stati “funamboli” dei rispettivi linguaggi: per cui entrambi, dopo una prima fase relativamente canonica nelle forme, ma contenutisticamente già pregnantissima, di fronte all’archetipo ulissiaco hanno tentato e portato a termine una profonda rivoluzione linguistica, strutturale, tecnica e semiotica, che ha continuato ad influenzare rispettivamente la letteratura e il cinema per i decenni a venire.

Bibliografia
Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano, 1a ed. Tascabili 1977, nuova edizione 2017
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[…] tutt’altro avviso era invece Umberto Eco. In un articolo intitolato provocatoriamente Giù le mani da mio figlio!, pubblicato […]
[…] Potrebbe essere illuminante tentare una lettura storiografica e sociologica di questi film, che illustri non solo come cambia la percezione dello status quo globale in un fenomeno di narrativa di massa che abbraccia gli ultimi sessant’anni, ma anche i mutamenti che ha subito la figura dell’eroe nel passaggio da XX a XXI secolo. Tuttavia, come pionieristicamente ribadito da Umberto Eco, anche la scrittura di Ian Fleming e i suoi moduli narrativi hanno non pochi motivi di interesse, soprattutto quando si smarcano dai loro cliché usuali: proprio per questo è particolarmente interessante leggere Solo per i tuoi occhi, recentemente edito in Italia dall’Adelphi. […]