
“First man – Il primo uomo”, di Damien Chazelle
– “Il destino ha ordinato che gli uomini che sono andati sulla Luna per esplorarla in pace, resteranno sulla Luna per riposare in pace. Questi uomini coraggiosi sanno che non esiste speranza per il loro recupero, saranno compianti dalle loro famiglie, saranno compianti dalla Madre Terra, che ha osato mandare due dei suoi figli nell’ignoto. Ogni essere umano che alzerà lo sguardo verso la Luna nelle notti che verranno saprà che c’è un angolo di un altro mondo che sarà per sempre umanità. Prima del discorso, il Presidente telefonerà alle eventuali vedove, un sacerdote adotterà la procedura della sepoltura in mare, affidando le loro anime all’abisso degli abissi. Commenti?”;
– “Mi sembra ottimo”.
Andare oltre, questa volta letteralmente oltre l’atmosfera. Sfidare i pronostici impressi in discorsi già scritti da altri, non per dimostrar loro di essere degli “eroi”, bensì per (ri)trovare se stessi. Questo è il messaggio lasciato da First man, prodotto da Steven Spielberg e diretto da Damien Chazelle, che, dopo Whiplash (2014) ed il pluripremiato La La Land (2016), torna al Cinema – non prima di essere passato dall’ultimo Festival del Cinema di Venezia – con l’atteso biopic incentrato su Neil Amstrong, il primo uomo a mettere piede sulla Luna il 20 luglio 1969, affidando a Ryan Gosling l’onore, ma anche l’onere, della sua interpretazione.
Rifuggendo da un facile patriottismo, al punto di essere criticato oltreoceano per l’omissione dell’immagine storica della bandiera U.S.A. piantata sul suolo lunare, Chazelle, partendo da un approccio falsamente documentaristico caratterizzato dalla frequente camera a mano, preferisce rendere omaggio alla figura di Neil Amstrong guardando all’uomo, ancor prima che alla figura dell’astronauta passato alla Storia.
Gli anni che portano alla missione dell’Apollo 11 sono gli anni dei conflitti, non tanto quelli della “corsa allo spazio” tra Unione Sovietica e Stati Uniti, presenti ma posti in secondo piano, ma quelli di Neil, indagati attraverso la lente di una triste vicenda familiare che, liquidata in poche immagini all’inizio del film, finisce per plasmare inevitabilmente la sua vita e con essa il suo lavoro. S’incorrerebbe in errore, però, a voler inquadrare il film in una prospettiva all’insegna del pietismo, laddove a predominare è la voluta ricerca di un ruolo attivo dello spettatore, al quale è richiesto un notevole sforzo nel ricercare empatia con il personaggio di Amstrong. Ryan Gosling restituisce un Neil Amstrong glaciale: la tensione narrativa del film è incentrata sulla sottile linea che divide comprensione dalla distanza. La distanza Terra-Luna finisce così per essere un simulacro della lontananza concreta, (in)vivibile, tra Neil ed il suo microcosmo: la famiglia, i figli con cui dovrebbe giocare, metterli a letto, e la moglie (madre) Janet. Proprio quest’ultima, interpretata da una carismatica Clare Foy, farà da voce allo spettatore, in un ruolo stretto, ridotto a poche battute ma al contempo funzionale controcanto di un protagonista schivo, sfuggente e in definitiva delineato solo a tratti, impenetrabile davvero nelle sue sfaccettature.
L’apatia del personaggio ed un dispositivo narrativo improntato alla sottrazione si congiungono con le soluzioni visive e sonore, vero elemento cardine di First man. Tra velate citazioni ad Odissea nello spazio (Stanley Kubrick; 1968), Apollo 13 (Ron Howard; 1995), ed ancora alla delicatezza di The tree of life (Terrence Malick; 2011), l’essenza comunicativa della pellicola è deferita nuovamente al coinvolgimento personale dello spettatore che, pur consapevole dell’esito positivo della vicenda, complice l’impiego dei primissimi piani, della ripresa in soggettiva ed un efficace montaggio sonoro, percepisce tutta l’adrenalina e la tensione emotiva delle scene ambientate a bordo, vivendo dapprima con l’astronauta in modo diretto le difficoltà della missione, ed, infine, tutta la bellezza di quel deserto di pace, punto di arrivo di un’altra missione, tutta privata (mai storicamente attestata) dell’uomo.
Ma nella sequenza dell’allunaggio non è soltanto racchiuso il messaggio dell’intero lungometraggio. È proprio in questo momento che viene esplicitata la personalità artistica di Chazelle, che, avvalendosi per la quarta volta consecutiva del fedelissimo compositore Justin Hurwitz – dopo titoli come Whiplash e La La Land, costruiti interamente sulla musica – orchestra un delicato pathos, una danza verso la Luna, tornando finalmente alla spettacolarizzazione come elemento identitario del suo Cinema. Via la camera a mano, via i personaggi abbozzati ed anonimi, via gli uffici asettici della NASA. Ritrovare se stessi. Amstrong e Chazelle ci riescono, solo alla fine. È abbastanza?
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