
Gianni Staropoli – Sfiorare la luce abbracciati al buio | TRA13
Il buio è l’imprescindibile supporto della luce; questo il messaggio più efficace e suggestivo che traspare da Gianni Staropoli, il film/ritratto realizzato da Teatro Akropolis nel nuovo capitolo della loro collana La Parte Maledetta. Viaggio ai confini del teatro, attraverso cui i registi Clemente Tafuri e David Beronio indagano gli aspetti costitutivi delle forme teatrali, incontrando chi questi aspetti li incarna e li mette in crisi col proprio operare. Presentato durante la tredicesima edizione del festival Testimonianze Ricerca Azioni – con lo stesso Staropoli presente in sala – il film si propone come voce visiva e plastica dell’operare di uno dei più importanti light designer del teatro contemporaneo italiano, capace di segnare la scena con scelte consapevoli, eleganti e inconfondibili.

Attraverso un nitido e raffinato bianco e nero dai contorni minuziosi e ricchissimi, figlio di un cinema che richiama a tratti gli ambienti densi di racconto di Orson Welles, il film di Teatro Akropolis segue la figura di Gianni Staropoli attraverso un viaggio che si consuma in un cammino dello sguardo: sguardo su di lui, sul suo volto, sempre in cerca di un dettaglio impossibile e irraggiungibile, e sguardo su un’idea di luce che si realizza attraverso la materia che incontra, per sua natura bisognosa di farsi illuminare. La voce di Staropoli restituisce una dimensione concettuale che è racconto di un artigiano in stretto contatto con la propria materia prima, capace di plasmare il tessuto scenico attraverso la sostanza del visivo.
Il viaggio dello sguardo che accompagna la fruizione di Gianni Staropoli si apre in frammenti scopici impossibili, eppure strettamente ancorati all’idea di luce che ci viene restituita dalle riflessione del light designer. Il film spalanca squarci di percezione della luce stessa in un montaggio misurato che muove su segmenti tanto eterogenei quanto perfettamente intrecciati; la concretezza della persona che si muove in spazi pregni di potenziale luminoso è punto generativo di istanti di informali giochi fotografici, come a punteggiare piani di significazione inscindibili l’uno dall’altro: l’esperienza concreta, la percezione individuale, la riflessione intellettuale.

Come per gli altri film del progetto La Parte Maledetta, Gianni Staropoli si pone come riflessione limite, come tentativo di arrivare al punto critico della pratica scenica del light designer; il sogno di Staropoli, confessa lui fuoricampo, è di non dover illuminare più niente, di restituire ad una scena quella luce che gli è propria in quanto frammento del reale, anche se rappresentato. Il lavoro del light designer non è di illuminare i personaggi, non è di guidare lo sguardo dello spettatore attraverso l’azione, ma il suo compito è far nascere la scena, cucirvi addosso un panno luminoso che appoggia su quella condizione originaria di buio da cui tutto scaturisce. È infatti il buio il nascosto protagonista materico dell’intero film: l’immagine in bianco e nero sembra incisa attraverso il corpo oscuro dello schermo, con finissimi contorni di dettagli anche distanti; sul finire, quando un vertiginoso (anche nella tecnica di ripresa) percorso tra corridoi restituisce visivamente l’idea di luce in funzione all’azione, la densità del buio divora lo schermo, ne carpisce il contenuto, ritagliando scorci di percorsi circondati dall’ignoto.
I tre piani discorsivi – viaggio, intervista e percezione – si intersecano attraverso un montaggio dal ritmo sicuro e misurato, curato al dettaglio, ad accompagnare movimenti di macchina che spesso inseguono lo sguardo di Staropoli, ne anelano la restituzione, fino ad osare e penetrare dall’altro lato. Nello sguardo del light designer è presente la natura del guizzo luminoso inafferrabile, presente solo perché ne è percepibile l’assenza, fugace come un fotogramma, ammantata da un’oscurità lenta e soffice deputata a creare i vuoti necessari alla percezione del mondo. Mai come di fronte a uno schermo punteggiato da particelle di luce si è in grado di percepire la reale e palpabile natura del buio, che diventa a sua volta condizione perché i punti luminosi stessi acquisiscano senso, perché esistano e si trasformino.

Ad aggiungere tridimensionalità al tutto, concorrendo con la grana del bianco e nero a consolidare l’unità dei diversi piani discorsivi, la traccia sonora a cura di Gianluca Oggianu dona allo spettatore la percezione sonora del buio; è attraverso il profondo battito ricorsivo dell’andamento musicale che si comprende appieno il senso della riflessione di Staropoli ed è nella cadenza del suono che gli squarci della “luce in sé” acquistano natura di mondano, si affacciano ad un reale che non è unicamente immagine, che non sta nella descrizione della parola, ma che è effimera presenza già inattuale: nel momento in cui la luce è “vista” questa è già scomparsa, si è già consumata, come la nota musicale nel momento in cui è percepita.
Con Gianni Staropoli il percorso di indagine del linguaggio scenico che Teatro Akropolis porta avanti tanto con i suoi film, quanto con le produzioni teatrali raggiunge il complicato e utopistico obiettivo di mostrare, attraverso il medium che più di tutti ne è debitore, cosa sia la luce per chi la vuole plasmare e malleare, per quella dimensione artigianale che vede il luminoso come un abito di natura sartoriale, necessariamente condizionato dal corpo che veste, fatto di densissimo e palpabile buio. La scena raccontata da Staropoli attraverso il suo lavoro è un luogo originario di creazione visiva, di percezione in potenza, dove il suo compito artistico e linguistico è far fuoriuscire ciò che è già latente, con consapevole sincerità; un approccio che Tafuri e Beronio riconoscono proprio tanto nell’indagarlo quanto nel portarlo in scena attraverso la loro ricerca, negli interstizi di quella crisi inemendabile che il mondo del teatro ha disperatamente bisogno di abbracciare.
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