
Apocatastasi – La fine del corpo, prima di tutto | TRA13
Dopo l’intenso e densissimo lavoro sui corpi portato in scena con Pragma, i direttori artistici di Teatro Akropolis Clemente Tafuri e David Beronio proseguono la loro ricerca attraverso Apocatastasi, raffinato seguito ideale dello spettacolo del 2018 che, fondando la scena sulla stessa matericità espressiva, ne diventa risposta e contrappunto, rielaborandone gli equilibri linguistici e proponendo un moto di significazione che del mitologico mantiene il respiro eterno – a partire dal titolo, cornice valoriale necessaria del rappresentato – discostandosi da qualsiasi tipo di traduzione intertestuale diretta. Presentato durante la tredicesima edizione del festival Testimonianze Ricerca Azioni, Apocatastasi diventa immagine dei percorsi di ricerca e collaborazione di Teatro Akropolis, punto di incontro delle spinte energiche di una realtà in crescita e sempre più affermata, oltre che consapevole.

Ormai firma stilistica di Akropolis, il primo protagonista di Apocatastasi è il buio: non c’è sipario, non c’è palcoscenico, ma il nero vuoto che spegne gli occhi dello spettatore fino ad immergere lo sguardo in un intenso non-spazio nero, nel nulla originario e presentissimo, da cui la rappresentazione si manifesta. La luce non illumina dei corpi già presenti, ma li materializza davanti alla platea, mai così concreti perché nati come un’immagine originaria, come la prima cosa vista dagli occhi di uno spettatore appena posto nel reale; il buio concede la rappresentazione, come un privilegio temporaneo ed effimero, che vive per minacciosa indulgenza di un nulla sempre in agguato, sempre a circondare un accadere temporaneo, contingente, e per questo mai davvero presente («Il presente non esiste», celebre frase di Giorgio Colli, è il mantra che accompagna l’edizione del festival).
Due corpi si manifestano in uno spazio scenico dai toni caldi – in netta contrapposizione con le tinte di Pragma, in cui il blu era finestra traslucida dello stesso densissimo nero -, corpi femminili, culturalizzati, abbigliati, acconciati; sono corpi che si danno come ruoli, che solleticano narrazioni possibili in uno spettatore in attesa; corpi sollecitati da un minuto caleidoscopio musicale (ad opera della GOG – Giovine Orchestra Genovese, su composizione di Pietro Borgonovo) deputati ad un’azione che non avviene finché non vi si pone un obiettivo. Un obiettivo plastico e materiale come una sedia, eppure inafferrabile: l’esistere; anche in Apocatastasi i corpi diretti da Tafuri e Beronio sono corpi che anelano l’esistenza, che reclamano per loro il diritto di situarsi, il privilegio di essere presenti. Qui la sedia si fa immagine del mondo, luogo scopico di azioni celibi deputate a porre il corpo proprio dove esso possa farsi percepire in quanto tale, possa darsi situato, situazionato, esistente.

È una lotta ad esistere che comincia dall’interno: uno dei corpi – Giulia Franzone, estremamente convincente – scava in sé, si indaga come soggetto per poi cercare quella stessa soggettività nel corpo altrui – Roberta Campi, efficacissima – manipolandolo, cercandovi un volto; ma la reciprocità del soggetto si dà come violenta: la lotta è feroce, fa rumore, lascia segni e chiede ai corpi di essere usati, di spremersi. Sono corpi che cadono, che sputano, che rompono la continuità stessa del rappresentato ribaltando i ruoli nella continua rincorsa al proprio affermarsi, al proprio collocarsi sulla sedia/mondo che può dar senso all’esistere. Il tutto però rifuggendo un buio che minaccia, che ancora lascia fare finché lo crede opportuno, dandosi non come quinta, bensì come nulla, come fine del senso di ogni rivendicazione dell’esistente.
Il continuo scambio di ruoli, come l’impossibilità di identificare l’accadere come presente, sono sanciti dalla privazione dei volti: non c’è altro sulla scena, non è possibile alcun incontro, non c’è dimensione etica perché mancano i volti, manca la reciprocità di uno sguardo tanto tra i soggetti quanto con il pubblico. Il senso del mito – fuori dal tempo, negli interstizi tra i mondi – è dato da un’azione a-morale, al di là di un senso etico la cui assenza depriva la scena di un sistema di valori: è forse proprio il disperato richiamo dell’etica a cercare di portare a sé il primo corpo dal proprio interno – «La Legge Morale in me», diceva Kant – in un abbraccio disperato e mostruoso, violento, rumoroso e distruttivo, ma da rifiutare, da cui fuggire.

La lotta porta inevitabilmente ad una duplice “morte” prima della definitiva apocatastasi del titolo: da un lato il corpo capace di affermarsi decade, invecchia nell’istantaneo e ineffabile tempo della scena, arranca fino a perdere ogni forza, ingabbiato nel reale concesso dal buio, sempre più presente; dall’altro, il corpo che si è scoperto dall’interno, che ha cercato di situarsi e di esistere, si dissolve nel nulla del fuori-scena, cancellato dal reale. Ed è allora, dove tutto ciò che resta è un corpo inerte e un mondo/sedia spostato di posizione, che il buio rivendica il suo radicale diritto a riprendersi il momento, in un’apocatastasi del tutto, una cancellazione che, ponendo fine alle lotte, alle trasformazioni, agli scambi di ruolo, al senso, ridona l’equilibrio originario. Nulla accade, nulla è presente, accade il nulla, è presente il nulla. Essere corpo diventa impossibile, affermarsi come tale diventa insostenibile, tutto ciò che resta è il buio della fine, in grado di sospendere persino l’atto pragmatico e spesso automatico dell’applauso.
Apocatastasi è un’esperienza intensa e totalizzante che conferma la capacità di Tafuri e Beronio di saper scavare nel linguaggio scenico e di riuscire a far convergere le realtà che nel tempo hanno intercettato Teatro Akropolis; su tutte la GOG (qui anche in coproduzione), più che una semplice colonna sonora, vero e proprio tessuto di suoni e frontiera discorsiva per l’intero spettacolo – la comparsa di un brano sinfonico di Händel tra la pioggia di note apre a sottotesti universali – che dimostra quanto la ricerca ad Akropolis sia anche un lavoro di incontro, col fine di ampliare e raffinare un modo di fare la scena strettamente interconnesso agli spazi e le sensibilità che vi si intrecciano.
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