
House of the Dragon – Prima parte | Pesante è la corona
Dopo aver parlato del giro di boa di una delle più importanti serie dell’anno televisivo, è arrivato il momento di fare il punto sulla sua diretta concorrente, House of the Dragon, prodotta da HBO e anch’essa – come Gli Anelli del Potere – prequel di un franchise audiovisivo dalla portata discorsiva e spettatoriale immensa, Il Trono di Spade. Iniziata rompendo il record di visione per un prodotto HBO – quasi 10 milioni il primo episodio al rilascio negli USA -, House of the Dragon porta con sé scelte produttive coraggiose e consapevoli, che rimarcano il ruolo di Game of Thrones nell’ecosistema audiovisivo contemporaneo dopo la disastrosa chiusura di serie di tre anni fa, traducendo le spinte innovative della serie tratta dai lavori di George R.R. Martin alla luce di ciò che è cambiato dal 2011 a oggi tanto nei linguaggi quanto nelle forme di fruizione seriale.

Tornare a Westeros è un piacevole ritorno a casa che restituisce ai fan de Il Trono di Spade tutti gli elementi linguistici che hanno fatto la fortuna del franchise, puntando l’accento su dinamiche strette tra pochi e ben riconoscibili personaggi, configurando una struttura di racconto più teatrale e dalla drammaturgia solidamente intrecciata, basata quasi totalmente sulla brillante caratterizzazione e sull’interpretazione totalizzante dei protagonisti. Bastano poche sequenze per inquadrare ruoli e impianti narrativi, tanto che si arriva velocemente ad affezionarsi a ogni dinamica e ad ogni ruolo, con la giusta dose di tensione e ambiguità; insomma, potenzialmente materiale per un longform su più stagioni, capace di conquistare nuovamente un pubblico rimasto per troppo tempo a digiuno di prodotti simil-fantasy dal respiro adulto.

Qua troviamo il primo elemento fortemente coraggioso di House of the Dragon, che resta comunque in linea con il modello de Il Trono di Spade: la prima parte di questa annata inaugurale può infatti configurarsi come una stagione a sé stante, poiché dal sesto episodio avverrà un salto temporale tale da portare al cambio di buona parte del cast. Quindi se le ottime interpretazioni di Milly Alcock ed Emily Carey (rispettivamente Rhaenyra Targaryen e Alicent Hightower) sono state più che convincenti per consolidare un fandom affezionato, non saranno loro due a portare avanti plasticamente i ruoli, costringendo la serie ad un ulteriore virtuosismo narrativo per riaffermare la tenuta di personaggi totalmente da riscoprire anche dopo cinque settimane di racconto.

Certo a sostituire le due giovani attrici saranno due figure come Emma D’Arcy e Olivia Cooke, garantendo quindi una tenuta solida al fianco dell’eccezionale Matt Smith, che con ogni sua anche breve apparizione nei cinque episodi andati finora in onda sa rispondere vigorosamente a chi non lo riteneva la scelta adatta per il ruolo dello shakesperiano Daemon Targaryen. Proprio il personaggio di Daemon riporta in House of the Dragon quel linguaggio gore potenzialmente senza freni che ha inizialmente fatto la fortuna de Il Trono di Spade, allineandosi però a una contemporaneità audiovisiva che si è appropriata di quel modo del rappresentabile e l’ha integrato su più livelli di prodotto: violenza, nudità, erotismo e crudeltà non sono quindi più gli elementi attrattivi principali di un inedito modo di mostrare, ma diventano strumenti minuziosi del racconto, creando momenti di intenso valore scopico e narrativo, a misura perfetta dei personaggi coinvolti.

Proprio la misura si rivela la componente più accuratamente soppesata di House of the Dragon: se Il Trono di Spade nasceva sfidando le nuove dimensioni del televisivo, con schermi più grandi e più luminosi, diventando sinonimo filmico del motto di HBO, la serie prequel è consapevole che un decennio dopo i contenuti hanno fluidificato all’estremo la loro portabilità; House of the Dragon è un prodotto visivamente e narrativamente scalabile, pensato per una fruizione autonoma e già restituito ad un orizzonte di dilatazione e contrazione dei tempi di visione. Gli spazi di King’s Landing e dintorni, siano questi interni od esterni, si adattano perfettamente alla dimensione di ogni device che abitano al momento della fruizione. L’equilibrio tra scalabilità e qualità è garantito da un sorprendente lavoro sull’identità estetica del prodotto: l’illuminazione naturale restituisce una concretezza materica a personaggi, luoghi ed azioni, palpabili e sinestetici.

Cinque episodi per un rilancio del mondo di Game of Thrones che fino ad ora decisamente convince – il ritorno di Martin alla scrittura ha aiutato – e che non lascia dubbi su quale dei due attuali grandi prodotti di respiro fantasy stia riuscendo a riportare il proprio universo narrativo al centro del discorso produttivo efficace e di qualità, con una tenuta potenziale dall’amplissimo respiro. Con queste premesse – e con altissime aspettative – restiamo in attesa dei prossimi cinque episodi, con un cast rinnovato e un linguaggio verosimilmente spinto ancor più con forza attraverso gli anni che separano le vicende dei Targaryen e l’inizio della lotta per il trono di ferro dei Sette Regni che già abbiamo conosciuto. Nel frattempo, la speranza è che la qualità resti alta e che magari compaia qualche drago in più.
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