
House of the Dragon – Seconda parte | Prima della tempesta
Attenzione: la recensione contiene spoiler! | Erano stati promessi e finalmente sono arrivati: i draghi si prendono la scena negli ultimi cinque episodi di House of the Dragon. La seconda parte della serie HBO porta a maturazione tutto ciò che di buono è stato seminato nei primi episodi, sfruttando al meglio le potenzialità della fonte letteraria a cui si ispira: la raccolta di racconti Fire and Blood. Il libro di George R. R. Martin si presenta come un nudo resoconto storiografico di vicende in un passato ormai lontano: House of the Dragon riempie gli interstizi di quella narrazione, affonda nelle pieghe degli eventi e si affeziona ai personaggi scolpendone pian piano la postura, lo sguardo, i silenzi. Il risultato è un lavoro di lima, un ricamo di grande finezza.

Rispetto allo spoglio e un po’ arido libro di origine, la serie guadagna spessore su almeno tre livelli. In scrittura, innanzitutto: lo showrunner Ryan Condal dà vita a personaggi più approfonditi e ambigui, inserendoli in un tessuto narrativo dalle caratteristiche spesso teatrali; così alcuni episodi sono quasi pièce autoconclusive, come il settimo, una sorta di kammerspiel tra le maree di Driftmark. La recitazione, poi, dona ai protagonisti uno spessore umano ulteriore: pensiamo alla performance di Paddy Considine, un assolo commovente di tenacia e tenerezza; e a quella, tesa e umanissima, di Emma D’Arcy nei panni dell’amletica Rhaenyra Targaryen. Infine, la fotografia – aspetto su cui la serialità sta puntando sempre di più – sa esattamente come e quando colpire: è misurata ed elegante e, anche grazie all’esperienza di Miguel Sapochnik, dà grande uniformità e coesione visiva a questi dieci episodi.

House of the Dragon vuole (e riesce a) rifondare l’epica fantasy in modo molto più coraggioso di quanto tentato dalla concorrente Rings of Power. Lo fa con un’architettura drammaturgica complessa ma sempre fluida, distante dalla legnosità della serie sorella prodotta da Prime Video. L’epica nasce nel momento in cui le intenzioni dei personaggi si intrecciano o entrano in tensione con i doveri della nazione, della casata, della storia: è una dinamica antichissima, qui resa in purezza con un linguaggio cristallino ed esaltata dalla natura contraddittoria, sfumata dei personaggi. Lo dimostrano bene gli ultimi tre, magnifici episodi in cui questo attrito raggiunge il punto di non ritorno, fermandosi appena prima di un’esplosione che probabilmente vedremo nella seconda stagione. Lì l’ordito delle trame politiche e dei contrasti individuali si mostra finalmente a tutti: le pedine sono sulla scacchiera, le due regine sono pronte a combattere.

Questa seconda parte del nuovo prodotto HBO dimostra che House of the Dragon è riuscita a generare in un tempo straordinariamente breve quel coinvolgimento emotivo e quell’intimità con i personaggi che Game of Thrones, a causa del loro numero enorme e della vastità delle ambientazioni in cui si muovevano, aveva ottenuto più lentamente. Sono appunto i personaggi a costituire l’asse portante della stagione: nonostante la vicenda di base sia tutto sommato contenuta, nella loro caratterizzazione si percepisce un respiro ampio, ieratico, universale. Se a Rhaenys (Eve Best), la “Regina che non fu mai”, è affidata la componente più politica e attuale di questa narrazione, il vero motore di tutti i futuri eventi è il giovanissimo Lucerys Velaryon: il suo destino è la chiave della guerra imminente, la prima scintilla della Danza dei Draghi. Attraverso lui, nello splendido finale di stagione dalle tonalità fortemente horror, la serie riafferma la sua discendenza da Game of Thrones e insieme apre a nuovi sviluppi, facendo deflagrare l’unicità di questo progetto tramite il suo tratto più distintivo e marcatamente fantastico: i draghi.
Si conclude così un gioco di attese e consapevolezza con lo spettatore: dopo vari episodi in cui sembrava di intravedere una Westeros più calma e meno crudele, ecco irrompere con forza la tragedia che, per quanto prevedibile, arriva al termine di una serie dolorosamente inevitabile di eventi e perciò si presenta con una potenza ancora maggiore. Nella fine del giovane principe Luke si misurano assieme la parentela e la distanza di House of the Dragon dalla serie madre: da un lato, la comune grammatica di base e dall’altro la diversa consistenza – più fantasy, questa volta – del racconto.

A differenza di quanto accaduto con Game of Thrones, questa volta la serialità non deve inseguire l’ampia mole enciclopedica dei romanzi: avere come ossatura un racconto meno denso ed elaborato, che concede spazi abbastanza ampi di adattamento, ha sicuramente aiutato. House of the Dragon forse non ha reinventato il linguaggio della serie madre, ma di certo l’ha perfezionato, arricchendolo di colori e sfumature nuove, trovando quasi subito un equilibrio stupefacente tra fedeltà e libertà dalla fonte, tra l’elemento politico e quello fantastico, e anche tra le due anime della precedente produzione HBO: quella più focalizzata su personaggi e relazioni che prevaleva nelle prime stagioni, e quella più concentrata sulla spettacolarità visiva che invece prendeva il sopravvento negli ultimi, discussi episodi.

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