
Master Gardener – Una resurrezione in terra | Venezia 79
In Master Gardener, Fuori concorso a Venezia 79, a un certo punto compare un cane. La sua padrona lo ha battezzato Porch Dog, giacché, a detta sua, passa la maggior parte del suo tempo sul portico (porch, appunto) di casa. Siamo nel dominio del cinema di Paul Schrader, dove tutti hanno un ruolo, tutti rispondono a una funzione. Persino un cane. Dopo le ultime sortite tra i ruoli di un prete (First Reformed) e di un giocatore d’azzardo (The Card Counter), è la volta del giardiniere, Narvel Roth (Joel Edgerton), che ovviamente ricopre la propria funzione con meticolosità e tenendo tutto sotto controllo. E di nuovo, il protagonista di Schrader tiene un diario in cui appunta le proprie riflessioni, nelle notti trascorse in una stanza buia, povera e asettica, evocando il solito rituale bressoniano a cui il regista si è dimostrato più volte fedele. Tutto è assorbito in una logica del controllo, perché al di fuori di questa irreggimentazione necessaria vige, se non il caos, il confronto con un passato burrascoso, quindi con un’immagine complessa di sé, o persino con quello che era un altro da sé.

Narvel esegue la propria attività di orticoltore con una prammatica composta, lineare. Il suo aspetto è curato, dalla postura alla divisa, fino alla riga precisa e sottile dei capelli. Norma Haverhill (Sigourney Weaver), una ricca borghese in pensione e proprietaria dei giardini, lo venera, se lo coccola coi vezzeggiativi e se lo porta a letto. Ma, come accade sempre dalle parti di Schrader, l’intervento di una giovane donna, Maya (Quintessa Swindell), nipote di Norma, mette a rischio la ligia impalcatura del nostro protagonista, diventando prima sua apprendista e poi sua amata, e avvicinandolo pericolosamente a degli scenari di violenza da cui da tempo si è discostato. Perché una decina di anni prima Narvel aveva fatto parte di un gruppo criminale neonazista, commettendo omicidi e i crimini più efferati. Da lì la lenta catarsi, un lungo processo di purificazione innescato dalle collaborazioni con la polizia per annientare la sua ex organizzazione criminale. Era accaduto lo stesso per Oscar Isaac in The Card Counter e, come in quel caso, il passato è marchiato sulla pelle del protagonista: sul suo corpo sono disegnate svastiche e motti ad inneggiare la supremazia bianca, tracce visibili da custodire e rievocare davanti a uno specchio.
L’evidenza della ripetizione in Schrader è un dato di fatto, specie nell’ultimo trittico di titoli. Abbiamo già contezza, da spettatori, di quello che esperiremo mentre Narvel fa a pugni con le proprie colpe e vede la chiarezza della propria missione opacizzarsi, in vista di un automatico deragliamento finale di violenza, di fuoco e fiamme. E succede, non vi erano dubbi su questo. Il punto è però un altro. Narvel è, tra gli ultimi, il personaggio schraderiano più votato al bene, sogna un futuro con Maya ed è solo per amor suo che si applica a un ultimo gesto estremo. In questo senso, la differenza con l’approccio tutto vendicativo di William Tell in The card counter è notevole. Consapevole di un calvario non ancora risolto, Narvel rivela una funzione cristologica di passione e resurrezione che ha già nel suo amore per il giardinaggio e nella floricultura un’immagine paradisiaca, di bene per il bene. Forse potrà apparire davvero come “sempre lo stesso film”, come la variazione minima di un tema noto (per qualche ragione, Ozu era immune alle critiche di questo tipo). Eppure, in questa settantanovesima Mostra emerge con una certa limpidezza quanto ancora il regista americano sia il più innamorato del Cinema, il più cinefilo di tutti, quello che ha più a cuore l’andare alla carne e alle ossa delle cose da mostrare, omettendo rivoluzioni, drastici cambi di percorso, in vista di un aggancio a un nocciolo duro. Narvel e Maya fanno l’amore e tutto attorno a loro si trasforma, diventa sacro: immaginano di essere sommersi da un paradiso terrestre di fiori sgargianti, percorrendo in auto una strada notturna che all’improvviso si rovescia nel più luminoso dei giorni.

E pare poco? “La forma, molto più che il contenuto, tocca lo spettatore” aveva detto Bresson. Schrader lo aveva ripetuto e ne aveva fatto il passaggio chiave del proprio trascendental style, come riduzione ai minimi termini della materia, coi corpi e le storie intese come tessere potenzialmente e infinitamente interscambiabili. Ma se pure sembra un’elusione all’impegno, a una ricerca più acuta e ampia, marche di un autore che procede col pilota automatico, dopo tutta la degradazione notturna, il sozzume della metropoli (“All the animals come out at night – whores, skunk pussies, buggers, queens, fairies, dopers, junkies, sick, venal”, così Travis Buckley in Taxi Driver), il sangue schizzato sulle inquadrature, le liturgie di flagellazione, è soltanto adesso che può calzare quel giardino, è adesso che ha senso la fine del calvario, è adesso che abbiamo bisogno di un autentico lieto fine. Non in un luogo immaginato, remoto e appunto trascendente, ma compreso nel nostro orizzonte visivo, ancorato al terreno che calpestiamo e nutriamo. Una piccola variazione nella narrazione, sì, ma di che spessore. E non c’è cosa più bella che potessimo desiderare, per noi e soprattutto per Schrader (che amiamo e desideriamo il bene del cinema, dunque amiamo e desideriamo il bene per Schrader), di due personaggi che si tengono stretti, si abbracciano e si amano, danzando sul portico bianco di un luogo che è finalmente diventato la loro casa.
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