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Oh, Canada – Ballata di un eterno vivere e morire | Cannes 77
Ciò che si mostra in fotografia si fissa in un’eternità attivata istantaneamente ogni volta che quell’immagine si ripropone alla vista. E un momento straziante come quello che precede di un attimo un’esecuzione, immortalato, impressionato sulla pellicola, restituisce in questo senso la vita al condannato a morte, un ridestarsi nella coscienza dello sguardo spettatoriale. Di fronte a un gruppo ristretto di allievi, si esprime all’incirca in questi termini, citando Susan Sontag in Sulla fotografia, il documentarista Leonard Fife protagonista di Oh, Canada, l’ultimo film di Paul Schrader in concorso a Cannes 77. Tuttavia, suggerisce una delle sue allieve più promettenti, quello stesso ri-vivere è anche un ripresentarsi continuo della morte, dell’attimo in cui il proiettile viene sparato e sta per attraversare da parte a parte il cranio del condannato. Insomma, riducendo all’osso e con estrema semplificazione, qualcosa si ferma e insieme si ripete. Ad infinitum, ad nauseam. Il punto di partenza è I tradimenti (Foregone) l’ultimo romanzo di Russell Banks (già adattato da Schrader in Affliction) prima della scomparsa nel 2023, che Schrader mette in scena con non poca fedeltà e individuando in esso un punto di profonda convergenza coi temi del suo cinema insieme teoricissimo ed esistenziale.
Leonard Fife s’è costruito una grande fama internazionale per i suoi documentari d’inchiesta. Come quando ha rivelato al mondo i soprusi di un prete pedofilo con un’indagine tanto acuminata ed esemplare da farne un guru del settore. Il punto è che il successo se l’è costruito fuggendo da tutte quante le sue responsabilità, disertando il Vietnam e allontanandosi verso la zona franca del Canada in cui trascorrerà poi il resto della sua fortunatissima vita. Fiaccato dalla malattia e ormai in punto di morte, Leonard decide che è giunto il momento di dire alla moglie (Uma Thurman) la verità, tutta la verità nient’altro che la verità, e per farlo approfitta della lunga intervista che una coppia di suoi ex allievi (che annovera persino un Oscar) vuole girare su di lui attraverso una sorta di interrotron, tecnica che mostra su uno schermo all’intervistato il volto del regista-intervistatore, accorciando in questo modo le distanze tra i due. Le cose che Leonard avrebbe potuto ormai omettere, perché a un passo così dall’inghiottirle nell’oblio della morte e preservando intatta la bell’immagine di sé costruita lungo una vita intera, sono ora richiamate alla mente e formulate quasi in flusso di coscienza ininterrotto non tanto perché non abbia più niente da perdere, quanto per cercare una redenzione e consegnare alla moglie qualcosa di sé che sia davvero autentico, prima che sia tardi.
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Il passato che si srotola dalle parole di Leonard si fa presto luogo di contaminazioni e di dubbia veridicità. Il cancro, l’effetto dei medicinali, la stanchezza, tutto concorre ad ammantare di dubbio le parole che pronuncia, e le immagini che ne costruiscono la sintassi nel lungo flashback destituiscono già dopo la sua introduzione la linearità dei fatti messi in campo. Si va avanti e indietro per balzi, per lacerti, tasche di tempo che zigzagano tra un primissimo tempo in cui un appena ventenne Leonard sembra vestirsi di un’integrità morale volta a fare il bene della compagna e del figlio che porta in grembo, e i successivi detour che ne rivelano l’immoralità, la fragile etica, i continui tradimenti. Il Leonard in fin di vita del presente è un Richard Gere (già con Schrader protagonista in American Gigolo) che in alcuni segmenti si sostituisce alla versione del passato da ventenne interpretata da Jacob Elordi, come se nello sforzo di capitalizzare l’incontro con quelle immagini lontane finisse per riviverle, anzi, ricaderci anima e corpo. La stessa presenza di Elordi sarebbe da leggersi come mistificazione e contaminazione del passato. Di bellezza statuaria, altissimo e dalla muscolatura imponente, l’attore rivelazione di Euphoria, più che sul piano della credibilità, della somiglianza alla figura attempata di Gere, si giustifica come nuova riproposizione di sé, un ripensamento estetico, per sfoggiare un protagonismo e una padronanza del suo tempo che forse il giovane Leonard non ha mai avuto.
Dove la verità si fa indistinguibile dalla menzogna volontaria o da quella involontaria dettata dall’offuscamento dei farmaci, pure la forma si fa stavolta peregrina e cangiante, abbandonando il rigore bressoniano che aveva strutturato in particolare l’ultima trilogia di Schrader (First Reformed, The Card Counter, Master Gardener) – la forma del supplizio e dell’ascetismo, dell’austerità, da aprirsi all’amore e a un’ascensione -, e accoglie ora formati differenti, immagini in bianco e nero e a colori, senza che queste rispettino una particolare partitura (anzi, finiscono spesso per sovrapporsi lungo le medesime sequenze). E i punti di vista, per cui accanto a quello di Leonard trova posto quello – prima solo in voice over e poi mostrato – di un figlio che, ormai 50enne, cerca di stabilire un contatto col padre, senza essere mai da questi riconosciuto. Insomma, le turbolenze taciute di un’esistenza possono ora proporsi solo come materia spuria, inattendibile e, più di tutto, inadeguata per lo sguardo dell’allievo regista che si prefigurava di incanalarla entro il binario dialogico da lui definito. Il monologo invece magmatico, poi ellittico, rabberciato, che a un tradimento ne associa un altro e un altro ancora, che alla volontà di combattere a Cuba fa seguire la diserzione dal Vietnam, eccetera, questo convulso parlare sfugge, per quanto cinico e indifendibile, all’oblio, all’impermanenza.
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Dicevamo in apertura, a proposito di Sontag, che le immagini fissano qualcosa in un’eterna ripetizione. Ma serve più di questo, e cioè della lezioncina impartita e appresa superficialmente dall’allievo che del maestro vuole pure ritrarre segretamente il momento terminale mediante una minuscola videocamera disposta su una mensola (stare Davanti al dolore degli altri, per tornare ancora a Sontag). Serve più di questo, appunto. Pur nel loro formularsi da zero perché prive di un sostanziale fondamento, sono le immagini di Fife/Schrader che brulicano dietro le sue palpebre abbassate nell’atto di concentrarsi (e davanti ai nostri occhi spalancati che le accolgono) a mostrarsi come un ineludibile incontro con l’eterno. I sogni e gli amori traditi, le fughe notturne, i bivi e la frontiera da attraversare, l’etica costruita da zero in una terra affrancata dal passato e la memoria sepolta sotto la coltre dell’impostura. Tutto finisce per illuminarsi letteralmente (lo si vedrà in una particolare sequenza) e ripetutamente alla vista, prima di Elordi e poi di Gere, come un’epifania. Ancora e ancora. Fino (e anche oltre) all’ultimo respiro. Straordinario constatare come alla fine sia sempre questione di tempo, da fermarsi o far rivivere. Coi grandi in concorso a Cannes 77 è andata così: dal gigantismo e insieme dalla miniaturizzazione di Coppola alla ri-suturazione poetica attraverso il montaggio delle immagini d’archivio di Jia Zhangke, allo stesso Schrader, naturalmente. Non si sfugge alla commozione, specie quando il vivere e morire delle cose si compenetrano tra le immagini di un’ultima espi(r)azione e quelle di un’alba nuova (oh, Canada!). Mostrando la fragilità di un errare (camminare, avanzare per errori) pienamente umano che si fa nella musica (quella bellissima di Phosphorescent) e nella luce eterna ballata.
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