
White Noise – L’immortalità del consumo | Venezia 79
È definito rumore bianco quel disturbo televisivo che si presenta in assenza di segnale, una non-immagine nel tempio del flusso visivo. Originariamente, venivano nominati in questo modo quei rumori impercettibilmente presenti, come quello conservato dall’atmosfera dopo il Big Bang. Esplosioni e figurazione quindi, o meglio, catastrofi e icone: un titolo calzante per quest’opera allegramente apocalittica.
Noah Baumbach ha da sempre raccontato le storture e le idiosincrasie famigliari con uno sguardo che trova il suo valore realistico nell’alternarsi di dramma e commedia. Lo stesso approccio sopravvive in White Noise, che deriva però da un testo apicale di Don DeLillo, uno dei capolavori del pensiero sul postmoderno.
DeLillo individua nella famiglia – in questo caso quella dei vivaci e appassionati Gladney – “la culla della disinformazione mondiale”. In White Noise il nucleo famigliare è scomposto come cellula primaria di una società in cui Elvis e Hitler sembrano provenire dalla medesima madre, entrambi catalizzatori di una massa che marcia spedita nella stessa direzione mortifera e spendacciona.

I tre capitoli che ritmano questo film acrobatico e irruento, passano dall’idillio consumistico all’apocalisse di una nube tossica, fino alla dipendenza da un farmaco (un MacGuffin esemplare) che sembra salvare dalla paura della morte, proprio come l’accumulo di beni nel secondo capitolo.
La sceneggiatura forse fin troppo adulatoria, eccessivamente timorosa di staccarsi dal sacrale acume del testo originario, si riscatta grazie a una messa in scena che sa trasporre nel visivo e nel sonoro la proliferazione chiassosa e lo straniamento della prosa di DeLillo.
Voci e dialoghi e voci altmanianamente sovrapposti, immagini e riflessi che scorrono le une sugli altri, slogan e pubblicità che si confondono con il paratesto del film, colori vividi che sublimano la fotografia del bravissimo Lol Crawley verso la fluorescenza iperrealista dei neon: tutto rimanda al consumo come abitudine, alla frammentarietà del conoscibile e, infine, alla proliferazione delle immagini in cui oggi siamo pienamente immersi.

La regia dell’autore newyorkese sembra più padrona del linguaggio, a volte virtuosa: lascia che la scena restituisca l’iconosfera e l’infodemia in cui i protagonisti si trovano a vivere, profondando l’immagine filmica con improvvisi contributi d’archivio, zoom a schiaffo e plongée acrobatici.
È anche grazie a questa prospettiva estetica che Baumabach reinnesta il capolavoro di DeLillo in un discorso attuale, affrancandolo dalla sola affinità col postmoderno e aprendolo a un confronto con l’attuale post-pandemico e tardo-capitalistico.
Si parla di “morti viventi” – impauriti e quindi bisognosi di un idolo, di un’epica – innocentemente dipendenti da una massa in cui riconoscersi. Si muovono seguendo i tragitti sempre identici del supermercato: una vera e propria sala da ballo, esperienza mondana e identitaria in cui l’ipnotica e invasiva disposizione delle merci ricorda la tassonomia delle foto di Andreas Gursky.

In un’ottima sequenza in montaggio alternato, tra gli applausi accorati di una folla, si frappongono le immagini di una grave catastrofe chimica, come a voler riecheggiare l’ultima frase dell’opera di DeLillo… “Il culto delle star e dei morti”, dell’impossibile e del certo, dell’immagine e del farsi immagine, status.
È un film che come diversi esempi recenti (vedi la filmografia di Adam McKay, scherza sulla fine dell’umanità con toni da sitcom, deride le psicosi e le rimozioni collettive, ironizza sul valore estetico di una catastrofe lenta e annunciata, e sul rassicurante e ingenuo bisogno di appartenere a una massa. È il racconto di un disastro su larga scala, che parte dall’interno domestico di una famiglia apparentemente felice, colta dalla soggettiva impossibile del fondo di un cestino della spazzatura.
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