
Khers Nist (Gli Orsi Non Esistono) – Amore e Cinema Clandestini | Venezia 79
Gli orsi sono i custodi di ciò che sta oltre i confini che non possiamo attraversare, le minacce che ci costringono in un perimetro. E nel nuovo film – non solo nel titolo – di Jafar Panahi sembrano non esistere, o meglio fondano il loro potere su credenze popolari, paure e superstizioni per mantenere il controllo. Ne Gli Orsi Non Esistono (Khers Nist), in concorso a Venezia 79, il maestro iraniano, arrestato questo luglio con l’accusa di propaganda contro il sistema, prosegue la sua riflessione sul conflitto tra la libertà individuale e regime iniziata con Il cerchio e proseguita con This Is Not a Film.

Panahi, costretto in un villaggio attaccato al confine con la Turchia, dirige un film tramite computer (con tanto di problemi di connessione) e si ritrova coinvolto in ottusi e seccanti dissidi di paese. C’è molto del suo cinema: la condizione di esule e prigioniero, la narrazione meta-discorsiva del mezzo, la cultura popolare e rurale. Due livelli di narrazione che si contengono, intersecano e poi confondono, a ricordare la breve distanza che nella sua filmografia separa la messa in scena dal documento.
Autore, attore, cittadino costretto a dirigere da remoto, racconta due amori che, come quello tra lui e il cinema, sono ostacolati dall’assurdità delle leggi imposte dal potere o dalla tradizione. Ma proprio il cinema e l’ossessione documentaria lo riscatteranno almeno in parte da quella condizione di regista rimosso che gli è imposta.

È un’opera che non può non dialogare con ciò che accade al suo autore nel momento in cui viene presentata a Venezia, come ricorda la sedia vuota di Jafar Panahi in conferenza stampa, ma soprattutto con un’intera carriera che ha già conosciuto la censura, la libertà condizionata e la carcerazione. Coercizioni – limiti, confini per l’appunto – a cui Panahi regista e cittadino, si è ribellato sfidando il potere e rivendicando il suo diritto alla libertà di espressione. Ecco perché ogni film di Jafar Panahi è necessariamente immerso nella sua vita, senza che questo adombri le sue storie così umane.

Panahi, come in Tre Volti vive la ruralità più tradizionale, ritraendola con l’amara e definitiva accettazione dell’imbalsamazione culturale del suo paese. Sospettosi, comici, inospitali e superstiziosi, i personaggi secondari, colti con la solita affettuosa attenzione alla singole individualità che Panahi usa nei suoi ritratti, colmano il film. Il regista le cattura con la solita discrezione, mantenendo il suo sguardo attento alla materia umana, vicino a quello del suo maestro Abbas Kiarostami. Panahi filma e fa filmare la realtà intorno a lui. Il racconto si lascia quindi animare da una molteplicità di formati diversi, stoica attestazione della necessità di praticare il suo linguaggio a tutti i costi, a qualunque distanza.
Nel cinema testimoniale di Panahi, Gli Orsi Non Esistono rappresenta una tappa clandestina, tristemente fondamentale e in qualche modo eroica, nel suo riuscire a esprimersi con tanta serafica urgenza. È un cinema dell’identità – culturale, individuale e del mezzo cinematografico -, che non si esaurisce, come era lecito fosse, in un grido di protesta, ma conserva in sé la leggerezza poetica e la raffinata riflessione sul cinema di un grande autore.
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