
“Shakespeare is in the alley” – Il bardo e il menestrello
Alla fine l’ha fatto: nella sua Lettera all’Accademia di Svezia di accettazione del Premio Nobel Bob Dylan ha nominato William Shakespeare avvicinando il proprio modus operandi di scrittore a quello del bardo immortale, mettendo in luce quanto il lavoro di entrambi si fosse sempre basato su un’idea di “artigianalità” che ha nello scrivere uno dei tanti mezzi che concorrono al fine altro dell’opera completa. «Ho cominciato a pensare alla grande figura letteraria di William Shakespeare» scrive Dylan in un fiume di pensiero teso a ricordare quanto molto spesso confondiamo il significato di “letteratura”.
Immagino che si ritenesse un drammaturgo, e che il pensiero di stare scrivendo letteratura non lo sfiorasse nemmeno. Le sue parole erano scritte per il palcoscenico, era inteso che dovessero essere dette, non lette. Mentre scriveva l’Amleto sono sicuro che pensava a molte cose: […] “lo voglio veramente ambientare in Danimarca?”. […] Le sue ambizioni creative erano senz’altro al primo posto, ma c’erano anche molte questioni pratiche di cui bisognava tenere conto. […] “Dove lo trovo un teschio umano?” Sono pronto a scommettere che la cosa più lontana dalla mente di Shakespeare fosse la domanda: “Questa è letteratura?”. (Trad. di A. Carrera)
Certo è che, a prescindere dalla vicinanza di approccio alla scrittura e, soprattutto, alla parola in quanto fondamentale strumento di linguaggio più vasto della semplice etichetta di “letterario”, Shakespeare è per Dylan un riferimento esplicito fin dai primi tempi. Infatti, a partire dal ’65, anno in cui si data il passaggio di Dylan da una poetica Folk “punta dito” a un elettrico simbolismo Blues e Pop fatto di idrogeno e mercurio, Shakespeare diventa uno dei personaggi che popolano l’immaginario dylaniano, a fianco del Tambourine Man di poco tempo prima e vicino alla stessa Ophelia shakespeariana. Poco importa che le canzoni siano diverse, il mondo letterario di Bob Dylan è espressione di una sola materia linguistica, ancorata allo stesso Inglese parlato da Amleto e da Macbeth, sporcato del materialismo slang dei vicoli e del misticismo Hoodoo dei neri del sud.
Lo vediamo Shakespeare che parla con una prostituta – una french girl, come viene detto in Titanic – indossando scarpe a punta, in un vicolo di Mobile, Alabama, come canta Dylan in Stuck inside of Mobile with the Memphis Blues again; e sappiamo che il bardo «conosce bene» il menestrello, perché lui ha parlato di Ophelia pochi mesi prima, descrivendola come una vecchia zitella di ventidue anni, che rincorre una romantica morte fissando l’arcobaleno di Noè; tutto si consuma nel Desolation Row, un altro vicolo, in cui un giovane e ingenuo Romeo infastidisce Cenerentola ed Ezra Pound litiga con Thomas Eliot.
Proprio Pound aveva detto di Shakespeare che la sua conoscenza della vita era “limitata”, tanto da non riuscire a renderlo un poeta al livello di Chaucer; in Bob Dylan, Shakespeare si libera dalle gabbie dell’epoca Elisabettiana, ritrovando una carnalità di mondo per lui ancora inedita, macchiandosi di una qualche mitologia popolare – quella americana – che trasporta i suoi personaggi in una dimensione lirica altra. Il senso del tragico shakespeariano diventa una delle lenti con cui Bob Dylan racconta le sue storie, rubata al bardo immortale per osservare il sentimento, restituendo a William Shakespeare quel poetare lirico che, secondo Schelling, egli ha sempre voluto e mai ottenuto.
Sono infatti quelle “canzoni di non amore” [definizione di Alessandro Carrera] che mettono in forma, in Dylan, il tragico shakespeariano applicato all’oggi; un tragico che si ha unicamente quando una virtù degenera in colpa: l’ambizione in arroganza (Macbeth), l’amore in gelosia (Otello), la ricerca della giustizia in sete di vendetta (Amleto). Per questo Dylan gioca con Shakespeare nel suo “Love and Theft”, disco dove due canzoni si scambiano i canovacci delle scene: in Po’ Boy, Otello è avvelenato con noncuranza da Desdemona, mentre in Floater Romeo – e sembrerebbe proprio lo stesso di Desolation Row – vede la sua Giulietta troppo pallida, non più giovane come la ricordiamo nel dramma shakespeariano.
L’ironia si muove a tempo col tragico e le dimensioni si confondono, come sempre accade in Dylan quando, “shakespearianamente”, racconta di amori lontani, finiti per il fraintendimento del sentimento; c’è Shakespeare nella rassegnazione di It ain’t me Babe, o nel rimpianto di If you see her say hello. E Shakespeare resta ancora oggi, nella Tempest che dà il titolo al disco del 2012, dove una tempesta – non, però, la Tempesta del dramma – è allegoria di un affondamento prevedibile solo nei sogni; e resta in un inedito sorprendente, uscito a fine marzo, quel Murder Most Foul che riporta Amleto sulla scena di un crimine fondante, il peccato originale di una Nazione. Perché Harvey Oswald – o chi per lui – è Amleto tanto quanto lo siamo tutti noi.
Si intrecciano, quindi, in un’unità di linguaggio che è più della somma di una lingua con un fine, le poetiche di Bob Dylan e di William Shakespeare, per molti versi entrambi apici della loro propria arte. Il segno del bardo immortale è presente nei solchi di più e più versi cantati dal menestrello di Duluth, forse più di quanto quest’ultimo abbia consapevolezza o intenzione. Sarebbe riduttivo vedere la presenza di Shakespeare in Dylan come un “semplice” rimando intertestuale, o alla stregua di un’appropriazione culturale: qui la dimensione è quella della genesi linguistica, molto più vicina a una comune visione del mondo.
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[…] di trovare delle persone, di insegnargli le cose, di trovare dei costumi, delle scene… Nella lettera che Bob Dylan ha mandato per accettare il premio Nobel per la letteratura nel 2016 lui dice che il problema di Shakespeare non era se stesse facendo della letteratura, era dove […]