
WandaVision – Episodio 8 – Ritorno alle origini
Attenzione: la recensione contiene spoiler dell’episodio 8 | Con il suo episodio 8, la serie Marvel WandaVision, in uscita ogni settimana su Disney+, si avvia alla conclusione. Si cominciano a tirare le fila delle trame intessute negli episodi precedenti e le vicende si intrecciano a doppio filo con quelle di tutto l’Universo Cinematografico Marvel. Questo penultimo episodio è molto particolare: ha una struttura abbastanza rigida (quattro blocchi centrali, più un prologo e un epilogo) e mette da parte tutto ciò che sta al di fuori della cittadina di Westview per concentrarsi solo su Agatha, Wanda e le loro storie.

Agatha Harkness (Kathryn Hahn), che nello scorso episodio si era rivelata la vera responsabile dei glitch nella finzione creata da Wanda, è un personaggio memorabile. Assistiamo alle sue origini, alla scoperta dei suoi poteri immensi e alla sua iniziale incapacità di controllarli. La sua magia è potentissima e ha bisogno di una guida che le insegni come usarla, ma nessuno la aiuterà, esattamente come accade a Wanda. Per questo è lei che – più di tutti – dovrebbe capirla. In lei si mescolano invidia, ammirazione e comprensione per la giovane strega dai capelli rossi e la bravissima Kathryn Hahn è eccezionale nel rendere tutto questo con una mimica decisamente efficace. Agatha, anche se per ora sembra un villain, forse diventerà una guida per Wanda: è infatti l’unico personaggio che riesca a bucare lo schermo della finzione da lei creata, accompagnandola verso la verità.

E il percorso verso la verità, in questo caso, è un viaggio visuale nella memoria. Come in una seduta di psicoanalisi, le due streghe ri-visitano il passato della giovane Maximoff: quattro scene, quattro stanze, i quattro momenti tragici della sua vita che hanno dato forma ai suoi poteri e alla sua sofferenza. Qui il tempo si fa luogo, si incarna nello spazio e pretende che, finalmente, Wanda diventi la vera protagonista della sua storia. Una narrazione che (come anticipa la Gemma della Mente in una visione) si rivela per ciò che è sempre stata: una storia di origini. Una lunga e difficile presa di coscienza da parte di Wanda, che deve venire a patti con la sua vera natura. Una storia che racconta di come Wanda diventerà (o sia già diventata?) Scarlet Witch.

Con questo episodio, WandaVision conduce una riflessione breve ma davvero acuta sull’elaborazione del lutto. Wanda rivede Visione in laboratorio, ma il suo corpo è smembrato, inerte, senza vita. L’unica cosa che lei vuole (e che le viene negata) non è riportarlo online, ma dargli una sepoltura. Senza un corpo su cui piangere, infatti, la morte appare senza senso e non è possibile elaborarla e accettarla. Senza una sepoltura, senza una “chiusura” di qualche tipo, Wanda sarà perseguitata da un dolore irrisolto e non processato, dal fantasma di un futuro che avrebbe potuto essere.

Negli ultimi minuti dell’episodio, la fine della origin story di Wanda si ricongiunge all’inizio della serie. La finzione si svela e si fa esplicita. Lo spessore della riflessione metatelevisiva si assottiglia e si accentua invece la sostanza della componente narrativo-emotiva. Ormai sappiamo perché Wanda ha scelto di esiliarsi nella sua “bolla” televisiva, e sappiamo cosa significano davvero per lei quelle commedie che aveva cercato di rimettere in scena a Westview, sperimentando un nuovo significato del termine “confort tv“. Gli episodi precedenti assumono così una tonalità amarissima, profondamente triste: vedere Wanda – nel finale di episodio – mentre cerca di ricostruire un mondo protetto, fatto a immagine e somiglianza dell’unico periodo felice della sua vita, dove il dolore non possa entrare, è davvero commovente.

«Ma cos’è il dolore, se non amore perseverante?» Il dolore di Wanda (una Elizabeth Olsen in gran forma) è indivisibile dal suo amore. Un amore che si manifesta nel ricordo, nel fare memoria, e nel farla tramite la televisione. WandaVision è una storia che non avrebbe potuto essere raccontata attraverso alcun altro medium. Questa serie Marvel è un’ode al potere immersivo e consolatorio della televisione: non c’è ruffianeria, ma solo sincero amore per le storie e i personaggi. È un inno sincero (e molto consapevole) alla capacità della televisione di far stare bene le persone, offrendo per un istante la possibilità di una fuga nella finzione.
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