
Chiare, fresche et dolci acque. Morte del e dal paesaggio – 10° Festival Mente Locale
Divino (δῖος), ingegnoso (πολυμήχανος), resistente a molte sofferenze (πολύτλας), multiforme (πολύτροπος). Questi sono solo alcuni degli epiteti omerici attribuiti a Odisseo. Una concatenazione terminologica che mira a circoscrivere l’immagine simulacrale dell’eroe; al contempo, un’attestazione lessicale dell’estrema adattabilità (narrativa e concettuale) del soggetto narrato. Tutte categorie, queste, che trasfigurate attraverso una lente arbitraria – e, quindi, eminentemente critica – possono essere attribuite agli oggetti filmici dell’ultimo Festival Mente Locale, primo festival italiano del cinema documentario dedicato al racconto del territorio: oggetti filmici che sono il territorio stesso, ovviamente, e in secondo luogo il paesaggio e il milieu.
Fra il 5 e il 14 maggio, nella zona compresa fra Bologna e Reggio Emilia, si è infatti svolta la decima edizione del Mente Locale: un calderone d’intenti e approcci scopici alla rappresentazione-per-immagini del mondo in cui viviamo – o meglio, delle particelle infinitesimali che lo compongono. Un festival collinare che risponde all’obbligo della differenziazione, della polifocalità, e che in virtù della sua natura allocentrica consente allo sguardo di navigare a vista, volendo, oppure di creare reticoli di senso alternativi, personali, perché fondati sull’accostamento (fortemente maieutico) di materiali talvolta completamente divergenti.
Io, questa volta, nel corso dell’operazione di scavo interiore che è il documentarismo geografico, sono stato ferito a distanza di giorni (dolcissimo vulnus) da un cortometraggio e da un lungometraggio antitetici nei modi – ma dotati di un’affinità elettiva di fondo: la considerazione dell’acqua, dello specchio d’acqua, come luogo di vita e come luogo di morte. L’idea di un territorio, o ancora meglio, di un paesaggio acquatico, non pensato unicamente come vittima dell’Antropocene, ma come soggetto dotato di agency, di agentività – capacità di agire sul circondario e sull’uomo che, a fasi alterne, prende forza autonomamente o in virtù di una superstizione rituale.

Già. Ma il problema è quel che succede intorno allo specchio d’acqua. Ed è questo, almeno in parte, quello che emerge da Di visi di pietra memorie (Andrea Bordoli, 2022) e Tara (Volker Sattel e Francesca Bertin, 2022). Specialmente quando a dialogare sono lo zenit e il nadir: le Alpi Svizzere e Taranto.
Di visi di pietra memorie – Morte dal paesaggio
Poco più di otto minuti. Materiali d’archivio graffiati, pixellaggio crudo. Il suono è un costante rullo industriale, acidificato dallo sbuffo a fischietto di qualche macchina infernale che opera come un basso continuo. Una voce (francese) racconta di un luogo misterioso: un lago ad alta quota che impedisce il formarsi della vita, un lago antico, un’acqua a bassissima concentrazione d’ossigeno che rende(va) impossibile i processi di ossidazione e decomposizione. Quindi: detriti fossilizzati sul suo letto. Nessuna bestia acquatica, come allo stadio primitivo di un processo di terraformazione. Ma poi? Poi arriva l’uomo, noi, Io, come sempre, che si affaccia su questo grado zero del paesaggio: «Durante i lavori di costruzione [di una diga], alcuni operai bevvero l’acqua del lago e morirono d’intossicazione». Da quel giorno sarebbe stato indetto un rito annuale attorno alla diga, per commemorare i morti.

Chiare, fresche et dolci acque? No: acqua assassina che protegge i confini. Si diffonde una diceria, una leggenda – continua la voce francese. Dice che ogni volta che i corni suonano, e le detonazioni buttano giù le pareti circostanti il lago, i lavoratori morti in quell’occasione emergano dal passato e affiorino sulla superficie della roccia. Ectoplasmi.
L’azione industriale (capitalista) dell’uomo sul paesaggio trova un ostacolo; aggirabile, parziale, micro-simbolo di una “controcultura naturale”, di una resistenza. Poi il futuro si abbatte sul reale, ed ecco il cantiere e la diga.
In Sud America, a centinaia di chilometri e decine di anni di distanza, quando gli eredi dei conquistadores imponevano il canone occidentale con la forza del dominio, si rispondeva con infiltrazioni di contro-cultura letteraria simili allo sgocciolio di un lavandino: una goccia alla volta per costruire un’identità. Poi quelle gocce sono diventate lago e mare. Nelle Alpi Svizzere, nel cortometraggio, il lago specchio d’acqua contaminato dall’azione umana torna alla disgregazione, allo sgocciolio regimentato – ma non prima di portare qualche corpo all’inferno con sé.

Tara – Morte del paesaggio
E dall’altro lato, su un altro parallelo, Taranto e provincia. Ovviamente l’ILVA: un paesaggio à la Antonioni, sulla scia di Deserto Rosso, che si estende oltre le sue stesse propaggini, anche lontano dall’acciaieria. C’è un fiume, o meglio, un corso d’acqua che dà il nome al documentario: il Tara. Le sue acque, secondo una superstizione corredata di madonnine imbucate nelle frasche, sono magiche, curative. Hanno un potere “mariano”, miracoloso nel senso biblico del termine. Il popolo, la ggente, vi si reca per farsi il bagno e cospargersi di fango sulfureo, nella convinzione assoluta che quell’acqua gelida possa lenire i dolori e guarire dalle malattie. E quel che più colpisce, da un punto di vista paesaggistico, è che affacciandosi sul cavalcavia lì di fronte, a ridosso del fiume, si possano vedere gli AT-AT di Star Wars (o dell’ILVA, che dir si voglia) che guardano i bambini farsi il bagno in una delle zone più contaminate d’Italia. L’acqua – e lo testimonia un laboratorio scientifico – è balneabile. Che dire però del territorio circostante?

Basta spostarsi di qualche chilometro, vicino a ulivi secolari e pinete, vicino a capperi e rosmarini selvatici – dove una discarica fuori norma ha portato a un ingrossamento del terreno di trenta metri in altezza, tale da impedire a uno sguardo orizzontale di osservare il sorgere del sole: un’eclissi quotidiana, pre-apocalittica, che si risolve verso le undici del mattino o nel mezzogiorno di fuoco, nel sole che sgomita oltre il putridume e si fa di nuovo stellare. La mattina si sta nell’ombra, ma con gli occhi aperti per lavorare il terreno, per tirare avanti le aziende che operano sulla terra. Lettere, ingiunzioni, anche a provarci, ma non si regolarizza niente. Non è così ovunque, né sempre, ma la carica simbolica del luogo e delle sue storpiature è evidente: l’abitabilità e l’agibilità del reale sono condannate, specie quando si normalizza la catastrofe, e la si trasforma in una questione di punto di vista. Come i video su TikTok e su Instagram, le cui didascalie cominciano con “POV”, point of view, ma ne travisano completamente il senso, trasformando quel POV (la prima persona, la soggettiva) in una terza persona, in un “egli/ella” spettatoriale. Letteralmente: le restituzione di una impossibilità dello sguardo. In Realismo capitalista, Fisher parla di una «impotenza riflessiva» – poi Fisher «alla fine non ha retto e si è ucciso», come Daniele Giglioli ha detto in una bella intervista.

L’acqua, in questo caso, costituisce un controcampo eccezionale. Diventa agente di salvezza – da un punto di vista psicologico, prima che fattuale – nel paesaggio post-capitalista della provincia pugliese. Soprattutto, è estremamente abitabile (o perlomeno è un luogo-soglia che avvicina uomo e natura). Ci si potrebbe spingere fino a proporre, proprio a causa della sua abitabilità popolare e superstiziosa, diffusa, e nel periodo estivo esagerata, di parlare di una ecological exploitation. Ma non è questo che colpisce. È più interessante la fuga della ggente dal centro abitato verso l’acqua, dalla terra (inquinata, condannata) al liquido amniotico del fiume. Tutt’attorno la morte del paesaggio: nel Tara, la salvezza che proviene dal paesaggio.
C’è un discorso implicitamente ed esplicitamente contrastivo nei confronti del presente capitalista, in entrambi i film. Da un lato, in Svizzera, la testardaggine della natura che cerca di trattenere i confini dei propri argini, anche uccidendo – per quanto la focalizzazione oscilli fra uomo e natura, relazionandole minacciosamente. Dall’altro lato, una natura che (r)esiste in autonomia rispetto allo sfregio del territorio, venendo a patti con l’uomo, diventando una sacra pozza da bagno. [Che poi in Tara ci sia un sottotesto più politico, meno metaforico, è evidente. Si sente forte il disagio dei soggetti narrati, ma anche della macchina da presa, nei confronti di un’azione sul territorio industriale, pubblica, veicolata dalla finzione di una focomelia amministrativa e politica – ovvero: le mani ce le abbiamo tutti, specie chi ha il potere di agire sul piano macroscopico, ma non arrivano da nessuna parte. Ci si fermano sulle spalle].

Il potere, la violenza allocentrica dell’uomo nei confronti del territorio: ma anche l’improbabile catabasi rituale di quello stesso uomo, spogliatosi delle sue vesti antropologiche di conquistatore per farsi il bagno, ringiovanire, nelle fosse d’acqua del medesimo territorio – dove il paesaggio è tormentato da uomini altri, uomini delle acciaierie che non crediamo mai essere noi, ma che ci hanno rubato di nascosto le fattezze.
Nonostante tutto, dall’acqua viene un segnale, di rabbia da un lato, e di affermazione esistenziale dall’altro: un avviso della fine delle cose, ma anche un tentativo endogeno, biologico, di sopravvivenza e resistenza. Come dice uno dei bambini di Tara, affaticato, camminando su uno sterrato in formazione orizzontale con i suoi coetanei, in quattro sotto al sole, campi di grano e tubature metalliche al loro fianco: «Un altro chilometro, un altro chilometro. Ci facciamo i polpacci come Messi».
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