
Carmelo Bene e Antonin Artaud – Un cinema della crudeltà e il teatro senza spettacolo
Di Ludovico Cantisani
“Io mi inchino ad Artaud, genio nello smarginare la pagina, eversore della coscienza teatrale. Trovo vere certe sue immagini: la peste, il terrore. Il teatro dev’essere questo”: chi conosce la figura del geniale artista teatrale salentino Carmelo Bene si sorprende sempre a trovare nelle sue interviste e nei suoi scritti tali attestati di stima verso Antonin Artaud, attore e soprattutto teorico teatrale francese vissuto tra il 1896 e il 1948. Del resto, se un critico fine come Jean-Paul Manganaro attaccava in difesa di Bene la stampa specializzata italiana al tono di un “voi avete il vostro Artaud vivente e neanche ve ne accorgete!”, le tracce di una convergenza tra i due artistes maudits sono fin troppo vivide. carmelo bene antonin artaud

Antonin Artaud, vicino ma non appartenente al Surrealismo francese, ebbe una lunghissima esperienza da attore teatrale e cinematografico e prese parte anche alla Giovanna d’Arco di Dreyer, ma adesso è noto soprattutto per i suoi due testi Van Gogh o il suicidato della società e Il teatro e il suo doppio, in cui teorizzava un possibile “teatro della crudeltà”. Al pari di Carmelo Bene, ma in una maniera ancora più appassionata all’inizio e fallimentare negli esiti, anche Artaud tentò di ritagliarsi un percorso da regista e sceneggiatore cinematografico, ma, dopo che il suo primo soggetto prodotto venne completamente svilito dal regista a cui era stato affidato, Antonin Artaud ripudiò non solo il film ma il cinema in generale.

Nel Primo manifesto del teatro della crudeltà Artaud fu perentorio: “alla visualizzazione grossolana di ciò che è, il teatro, grazie alla poesia, contrappone le immagini di ciò che non è… non si può paragonare un’immagine cinematografica che, per quanto poetica sia, è limitata dalla pellicola, a un’immagine teatrale che obbedisce a tutte le esigenze della vita”. Quando fischiava su un cinema “nato morto”, “sempre morto”, C.B. velatamente citava il francese: non per nulla il filosofo Gilles Deleuze, nel suo L’immagine-tempo, riconosceva le assonanze tra Artaud e C.B. aprendo il discorso al tempo stesso all’ambivalenza tra cinema e teatro:
“Forse in quest’impresa [cinematografica] Carmelo Bene è il più affine ad Artaud. Conosce la medesima avventura: crede nel cinema, crede che il cinema possa operare una teatralizzazione più profonda del teatro stesso, ma ci crede solo per un breve istante. Ben presto pensa che il teatro sia più adatto a rinnovare sé stesso, che il cinema troppo visivo ancora limita… Resta il fatto che [Artaud] ha creduto, per un momento, il tempo di un’opera troppo presto interrotta, alla capacità che avrebbe il cinema di dare un corpo, cioè di farlo, di farlo nascere e scomparire in una cerimonia, in una liturgia. È forse qui che potremo cogliere una posta in gioco nel rapporto tra teatro e cinema”

Non è esagerato dire che senza il concetto di mimesis, o meglio senza la sua applicazione congenita e capillare, l’Occidente sarebbe stato un’altra cosa, rispetto a quello che è adesso: in forme in parte diverse, ma spesso convergenti, Antonin Artaud e C.B. sembrano tentare di confutare e rimuovere questo fondamento del pensiero occidentale, mettendo in scena – senza rappresentarlo – l’inimitabile, l’irripetibile attuale. Anche quello che sarà tutto il discorso teatrale di C.B. a proposito della phoné trova dei precedenti in Artaud, nella sua attenzione per l’intonazione, la musicalità della parola. Teatro senza maestri, quello di C.B. fu nondimeno un teatro a suo modo attento alla tradizione o almeno al suo concetto, solo in apparenza iconoclasta: e nella convulsione creativa che muoveva C.B. sui palchi l’antitradizionale Artaud fu un riferimento importantissimo.
Forse però, rispetto alla ricerca teatrale e brevemente cinematografica di Artaud, C.B. fa qualcosa in più. Artaud indagava le specificità del teatro e dello spettacolo e, per quel breve momento di fascinazione, le specificità del cinema e della macchina da presa: la sua era, insomma, la ricerca di un’identità senza compromessi e senza compromissioni, di un “teatro puro” e di un cinema altrettanto assoluto. C.B. fa qualcosa in più, fa di peggio. La differenza o meglio la progressione più evidente tra i due sta proprio nel concetto di spettacolo. Scriveva infatti Artaud ne Il teatro e il suo doppio:
“Per me il teatro si identifica con le sue possibilità di spettacolo, quando se ne traggono le estreme conseguenze poetiche, e le possibilità di spettacolo del teatro appartengono esclusivamente alla regia considerata come linguaggio dello spazio e del movimento”

Come è noto, C.B. andrà oltre – ribaltandola – questa prospettiva, arrivando ad auspicare sul finire della sua ricerca teatrale un’idea regolativa di “teatro senza spettacolo”. Insistendo sulla sottrazione, C.B. giunse a questo paradosso: ma il Teatro senza spettacolo esprimeva più che altro lo smacco di un teatrale che non vuole e che non sa farsi rappresentazione e possibilmente neanche messinscena, di un teatro vertiginosamente proteso ad andare oltre sé stesso e oltre tutti i suoi compromessi extrascenici. Un’idea programmatica di sfida, di arte come sfida e di teatro come scavalcamento del teatro stesso. Bene non si nascondeva che si trattava di una ricerca impossibile: ma “la ricerca impossibile non è l’impossibilità della ricerca, perché quando si cerca, non si deve mai trovare, altrimenti quel che si trova non è altro che una trovata”, era la sua conclusione.

Al di là di questa dissonanza, pure significativa, tra il “teatro di puro spettacolo” di A.A. e il “teatro senza spettacolo” di C.B., resta tra i due artisti una simmetria unica nella storia teatrale del Novecento – tanto più che, a ben vedere, Antonin Artaud e C.B. furono tra i pochi artisti teatrali per i quali la produzione artistica, sulla scena o in video, e la produzione teoretica erano rigorosamente e ordinatamente parallele, per non dire simultanee. Al termine del Primo manifesto del teatro della crudeltà, datato 1932, Antonin Artaud concludeva il suo discorso con un programma chiaro e definito degli spettacoli da realizzare per mettere in pratica la sua concezione teatrale, e una buona metà di questi spettacoli furono effettivamente portati in scena e a volte anche al cinema da C.B., a cominciare dall’elisabettiano Arden di Feversham che fornì un canovaccio a Capricci.
Tra Artaud e C.B. si coglie soprattutto una certa comunanza di passione, di impegno, di dedizione alla causa dell’arte, che è prima di ogni altra cosa una dedizione alla causa del linguaggio, dei linguaggi. Una semiotica che non è più teoria, ma che diventa componente inestirpabile di un’arte sorpresa nel suo farsi, nel suo sorgere. Il cinema di C.B., ancor di più del suo teatro, è una riflessione, spesso anche critica, sul proprio linguaggio: un linguaggio senza una lingua, verrebbe da dire. carmelo bene antonin artaud

Bibliografia
Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2000, a cura di Gian Renzo Morteo e Guido Neri, con una prefazione di Jacques Derrida
Antonin Artaud, Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, Minimum Fax, Roma 2001, a cura di Goffredo Fofi, traduzione di Marta Bertolini ed Enrico Fumagalli
Carmelo Bene, Contro il cinema, Minimum Fax, Roma 2017, a cura di Emiliano Morreale
Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2007, traduzione di Liliana Rampello
Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, Il Castoro, Milano 1999
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