
El original es infiel a la traduciòn – Carmelo Bene e la sua Salomè
“Solitario, senza affiliazioni culturali, Carmelo Bene ha costantemente contrastato il mito dell’originale, e della progenitura. Negando ogni logica genealogica, attraverso una pratica filologica à rebours, ha gettato Pentesilea, Salomè, Don Giovanni, Faust, Sade, Lorenzaccio, in sentieri ramificati dove interferiscono, in un presente continuo, personaggi, autori e critica”. Da questo punto di partenza si snoda L’originale è infedele alla copia, un saggio pluripartito della studiosa Beatrice Barbalato pubblicato dalla casa editrice dell’università di Lovanio, in Belgio; patrocinato da L’orecchio mancante, un’associazione di studi beniani di recente fondazione a cui si dovevano già le pubblicazioni dell’Oratorio Carmelo Bene di Jean-Paul Manganaro e di un’imponente raccolta di interviste a C.B. entrambi edite dal Saggiatore, L’originale è infedele alla copia tenta, con una forte solidità argomentativa, di tracciare un percorso attraverso il complesso rapporto di Bene con i cosiddetti classici. Nel teatro italiano del Novecento apparentemente nessuno era stato più iconoclasta di lui, eppure C.B. aveva sempre mantenuto una costanza programmatica nel fare, rifare e disfare – “eccedere”, dice a un certo punto il libro della Barbalato – i capisaldi della tradizione teatrale e letteraria tout court di mezza Europa.
Carmelo Bene non ha mai avuto remore ad affrontare a campo aperto nomi del calibro di Shakespeare, di Omero, di Dante, di Oscar Wilde, ma L’originale è infedele alla copia evidenzia efficacemente anche il suo amore per autori “intempestivi”, deleuzianamente minori come Heinrich von Kleist, François Villon o Jules Laforgue. Per questo “autore-attore-esegeta” che nel suo opus ha sempre manifestato le contraddizioni e le reviviscenze nell’immaginario di una società avviata verso la fine del simbolo, l’aggancio sia pure provocatorio al classico si è palesato come scudo contro la secolarizzazione e l’avanguardia, contro l’innominabile attuale del presente e della contemporaneità, ultimo nemico. La carriera teatrale di Bene era fulmineamente iniziata nel 1959 con l’adattamento di un instant classic come il Caligola di Albert Camus; il passaggio successivo della carriera di C.B. si consumò sotto l’ombra di Joyce, con lo scandalo del Cristo ’63 che fu l’apoteosi dell’esperienza delle cantine romane; ma già a metà degli anni sessanta C.B. era smodatamente e irrevocabilmente immerso tra un Pinocchio, una Salomé e l’Amleto, tre dei personaggi più ricorrenti della scena beniana: un tratto caratteristico del suo percorso teatrale fu proprio l’insistenza con cui, attraverso gli anni e a volte i decenni, Bene “ritornava” su certi archetipi, su certe figure, su certe contrad-dizioni capaci di risucchiare più personaggi in uno.

Il saggio della Barbalato, che abbraccia anche l’anti-cinema di Bene, si concentra sulle rielaborazione beniane dei personaggi di Achille/Pentesilea, sinolo mortale, della Salomè, di Don Giovanni, di Faust, del marchese De Sade e di Lorenzo “Lorenzaccio” de’ Medici per tracciare un’importante mappa dei riferimenti culturali dell’immaginario di C.B. Difficilmente si potrebbe trovare un esempio più colto di iconoclastia, ammesso e non concesso che sia questo il termine più adatto per tratteggiare il rapporto di C.B. coi classici, con la tradizione, con le convenzioni. In fondo, come scrive la Barbalato ne L’originale è infedele alla copia, “C.B. in tutti i lavori coglie un tratto forte di opere precedenti, note a tutti, ne esaspera e aggrava le fessure, e attraverso uno strategico remake impone un nuovo punto di osservazione”: accade così con l’abbraccio assassino tra Achille e Pentesilea, che in uno dei suoi ultimi spettacoli C.B. riuscì a interpretare una voce, accade così con il Don Giovanni, gabbato e scarnificato nel magistrale film del 1970 che valse a Bene una diagnosi di travestitismo sulle pagine di Cinema Nuovo, accade così anche con la Salomè, a cui la Barbalato dedica il capitolo forse più importante del libro. È sempre così, con Carmelo Bene: sul palco, o sullo schermo, si ha a che fare con la variante più estremizzata e sclerotica della leggenda, con l’ultima ipostasi dell’archetipo – o, per dirla con Maurizio Grande, con un “mito maciullato”.
“Della giovinetta seduttrice che la tradizione tramanda, nella Salomè di C.B. non c’è più nulla. È un’adulta androgina tra uomini poco virili”. In un vortice di citazioni da Heine, Flaubert, Laforgue, Moreau e Husymans, oltre che dallo scontato e onnipresente Oscar Wilde, C.B. ha composto le sue molteplici Salomè sempre nell’ottica di un discorso tra polarità maschili e femminili. La rielaborazione wildiana del personaggio evangelico, inizialmente destinato nientemeno che a Sarah Bernhardt, è uno dei personaggi su cui la sensibilità di C.B. si incaglia più spesso tra anni sessanta e settanta: dapprima Bene ne trae due diverse versioni teatrali, la prima nel 1964, al Teatro delle Muse, interpretata fra gli altri anche da Franco Citti, la seconda, nel 1967, al Teatro Beat 72; nel 1972, dalla Salomè di Wilde Bene gira a Cinecittà il suo penultimo film, con un cast che comprendeva, oltre a sé stesso nella parte di Erode, Lydia Mancinelli, Veruschka, Donyale Luna e Giovanni Davoli; nel 1975 l’abbandono al personaggio si consuma in radio, in un ultimo adattamento affidato unicamente alla voce.

La Salomè, quindi, è uno dei personaggi cruciali dell’imponente processione di figure che vanno a comporre l’immaginario di C.B., peraltro uno dei pochi suoi archetipi femminili. Le messe in scena teatrali vennero recensite, tra gli altri, da Alberto Moravia ed Ennio Flaiano – il film del 1972, anche grazie alle risorse economiche messe a disposizione da Anna Maria Papi, permise a Bene una reinvenzione del suo fare-cinema, creando in un teatro di posa una cacofonia di situazioni “esemplare per come i tanti personaggi stiano sulla scena, con dubbi e incertezze in comune, e non si parlino”, commenta la Barbalato. Ma l’ottica di Bene rappresenta l’esatto contrario dello sguardo con cui, in quegli stessi anni, un regista come Antonioni condannava l’alienazione dei rapporti in una società borghese: la luculliana corte di Erode viene rappresentata nel film di C.B. con compiaciuta insistenza, quasi con un amore per lo sfarzo, la lussuria, la corruzione. Lungo tutta la sua esperienza teatrale, Carmelo Bene in fondo si è esercitato in una rilettura iper-consapevole del barocco, metateatralmente giunto a comprendersi non più come horror vacui, ma come amor nihili. Le parole d’ordine di sterilità, tradimento, vampirismo avvolgono tutte e quattro le rielaborazioni beniane della Salomé, a prescindere dal medium prescelto: tra le mani di Bene, che come sempre “usura l’originale”, la Salomè si conflagra come sospensione del tragico, neanche c’è bisogno di vedere, come nei quadri rinascimentali, la sadica decapitazione del Battista.

Ne L’originale è infedele alla copia, approfonditissimo è la ricostruzione compiuta dalla Barbalato sulle numerose fonti testuali e ancor più iconografiche da cui Wilde, e Carmelo Bene stesso rifacendosi a e rifacendo Wilde, attinsero nel comporre le rispettive opere su questo personaggio seducente e capriccioso che, accennato nei Vangeli, in realtà deve molta della sua leggenda allo storico ebreo Giuseppe Flavio. Particolarmente significativa è la scoperta da parte della Barbalato di un finale mai montato e probabilmente mai girato, che la studiosa ricava da una sinossi del film del 1972 scritta personalmente da C.B.: “Salomè non danza ed il ritmo si incanta come per un attimo, come quando si dice che ‘passa un angelo’. Erode Antipa la ringrazia della sua splendida danza e come promesso le concede la testa del muratore, perché solo così può garantirsi un rimorso. Rimasto solo al centro, rabbuiato da un’eclissi di luna, Erode Antipa, finalmente sostenuto dal suo rimorso divino, inventa la paura. E in questo nuovo suo stato di grazia, con un colpo di revolver uccide Salomè. Si è trattato tutto sommato di una festa, di cui domani, la cronaca nera, rinverrà solamente tre cadaveri”. Difficile dire se il film ne avrebbe veramente guadagnato, da questo ulteriore explicit: il finale effettivo della Salomè cinematografica, che mostra prima una figura cristologica compiere una fallimentare “autocrocifissione mancata”, poi Salomè letteralmente scarnificare Erode nel compiere la famigerata danza dei sette veli, resta uno dei vertici del cinema beniano.
“C.B. ha svolto crepe, spaccature nelle opere-madri che ha rimodellato. Le sottrae alle nicchie dove erano collocate e le rende estranee e straniere a sé stesse”, è la conclusione che la Barbalato trae dalla sua esplorazione degli “adattamenti” beniani. Il titolo L’originale è infedele alla copia, che riprende una frase di Borges, è quantomai azzeccato, se si pensa a come, nella ramificazione di specchi e simulacri che ha sempre rappresentato uno dei fuochi dell’esperienza artistica beniana, perda in fondo ogni senso l’illusione di poter tracciare genealogie nette, di poter fare un calcolo delle fonti che non si ritorca su sé stesso. “Si riscrive perché non si può scrivere. Io riscrivo perché non sono Eva e tantomeno Adamo! Non sta forse scritto che gli ultimi saranno i primi?”, scriveva Bene stesso sul finire de L’orecchio mancante, forse il più impressionante dei suoi manifesti anti-cinema. Con l’opera d’arte ormai giunta al tempo della sua riproducibilità tecnica, non era forse arrivato il momento di far cadere la maschera sul concetto-spettro di Originalità?

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