
Belfast – Autobiografia di uno sguardo
Dal 24 febbraio scorso è nelle sale italiane Belfast, il nuovo film di Kenneth Branagh: un’opera personale e sentita, che per il suo legame strettissimo con la vita dell’autore e con la storia del suo Paese dà la sensazione che sia quasi ingiusto scriverne una recensione.
Belfast, fin dalle prime scene, dichiara subito la sua natura: è il racconto di uno sguardo. L’occhio della macchina da presa si arrampica su un muretto colorato, lo scavalca e rivela la quotidianità in bianco e nero del piccolo Buddy e della sua famiglia irlandese nei travagliati anni ’60. Buddy è, in pratica, la controfigura del regista: l’occhio fotografico del film coincide con lo sguardo memoriale di Branagh che, attraverso il protagonista, ripercorre la sua infanzia. Il film quindi mette in scena la maturazione di uno sguardo nel corso degli anni, e questo si rende evidente soprattutto nelle scelte relative alla fotografia, che nella prima metà è caratterizzata da un tono dinamico, vivace e quasi caricaturale, mentre nella seconda gradualmente diventa più statica e composta.

Noi spettatori vediamo tutto con gli occhi di Buddy: per due terzi del film, lui è sempre in scena. Nessuno degli eventi mostrati accade senza di lui, comprese le incursioni violente dei protestanti che portano paura e incertezza. A Branagh non interessa dare qui un giudizio storicamente critico e approfondito sulle vicende dell’Irlanda del Nord: chiaramente non è questo il suo obiettivo. Piuttosto, vuole mostrarci come lui stesso ha osservato e vissuto quelle vicende, che vengono presentate dunque in maniera abbastanza manichea, perché è così che appaiono agli occhi ancora bambini del protagonista.

Poi, pian piano, Buddy inizia a crescere e il processo di formazione della sua consapevolezza trasforma il linguaggio del film, restituendogli sfumature nuove e diverse. Il tessuto della narrazione autobiografica si fa più complesso, si apre a includere l’altro, esplorando sguardi diversi e fino ad allora sconosciuti. Una delle critiche che sono state rivolte a Belfast è di indulgere troppo in momenti da soap opera: in realtà non è proprio così. Nei momenti emotivamente più incisivi e delicati per la vita dei personaggi, lo sguardo della macchina da presa si allontana da loro, forse per rispetto, per discrezione o per il timore di caricare troppo il pathos. Eppure, sentimenti e contrasti trovano comunque il modo di emergere con forza principalmente grazie alla recitazione, dotata di una finezza e di una potenza che riescono a superare il pudore della fotografia. È frutto di grande mestiere ed esperienza, in particolare nel caso di Judi Dench e Ciarán Hinds, i nonni del protagonista, che sono al centro di alcune delle scene più intime e belle del film. Sorprendente il giovanissimo interprete di Buddy, Jude Hill: il regista affida al suo volto la maggior parte del peso emotivo del film e l’eredità autobiografica del suo passato personale.

Più che di infanzia, però, Belfast racconta – riprendendo il titolo dell’ultima bellissima raccolta poetica di Valerio Magrelli – di una exfanzia: un’uscita (volontaria o meno) dal territorio sicuro del passato giovanile. È, in fondo, un’operazione molto simile a quella condotta da Sorrentino in È stata la mano di Dio: partendo da una comune natura autobiografica, questi due prodotti giungono però a due risultati di segno diverso. Sorrentino ha scelto di spogliare il suo linguaggio (ricchissimo e a volte un po’ manierato) dei suoi virtuosismi più evidenti per ottenerne uno più asciutto e potabile, al tempo stesso molto lavorato e più immediato. Branagh, al contrario, adotta un linguaggio più estroso rispetto al suo standard, come per adattarlo meglio allo sguardo di Buddy. La distanza temporale e spirituale che separa i due autori dalle loro vicende si misura in queste due modalità opposte ma imparentate: la ricerca di rigore in un caso, e di vivace spontaneità nell’altro.

È necessario infine dire qualcosa sul meraviglioso finale di Belfast: la chiusura è affidata a Judi Dench e al suo ultimo, potentissimo sguardo in camera. È una conclusione spiazzante e al tempo stesso così appropriata da far pensare che questa storia non potesse finire in nessun altro modo. Lo sguardo che il film ha adottato finora, cioè quello di Buddy e della sua versione adulta, viene perforato da quello della nonna, ormai la sola componente della famiglia rimasta in città, che in questo modo si fa carico, metaforicamente, dello sguardo di tutta la città. È Belfast che, attraverso lei, incoraggia il ragazzino: «Ora vai, e non voltarti indietro».

Belfast è un film inaspettatamente accogliente, che nonostante sia radicato in modo irriducibile all’esperienza personale del suo regista, costruisce una storia universale. Soprattutto, costruisce la storia di uno sguardo, dei suoi incontri e del suo ritorno sul luogo che lo ha formato.
You’re Buddy from Belfast, and that’ll always be the truth.
Nonno (Ciarán Hinds)
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