
Sleuth – Gli insospettabili: il tocco di Harold Pinter
Nel 1970 al Music Box Theatre di New York, fa il suo debutto un dramma molto particolare scritto da Anthony Shaffer.
Nella pièce, Tinlde – un giovane parrucchiere di origini italiane – è intenzionato a sposare la moglie di Wyke – un anziano, facoltoso ed eccentrico scrittore di gialli britannico. I due si incontrano per discutere amichevolmente della faccenda, ma presto i loro colloqui si trasformeranno in scontri a base di cattiverie sempre peggiori, senza esclusione di colpi. La posta in palio? Prima la vita, infine la dignità e la rivalsa di classe.
In Italia il testo è giunto col titolo L’inganno (e con questo nome è stato riportato in scena nel 2010 con la regia di Glauco Mauri), ma il titolo originale è tutt’altro: Sleuth (in italiano, “investigatore”).

In questa sede parliamo della seconda trasposizione cinematografica della pièce, uscita in Italia nel 2007 col titolo di Sleuth – Gli insospettabili, interpretata da Jude Law e Michael Caine – che affronta il testo per la seconda volta, dopo aver ricoperto il ruolo da giovane nella prima trasposizione del 1972 – e diretta da Kenneth Branagh.
Il film gioca con i contrasti, a partire dal nuovo copione, rimaneggiato da uno sceneggiatore d’eccezione: il drammaturgo britannico Harold Pinter. Questo sarà il suo ultimo lavoro per il cinema: morirà nel 2008, un anno dopo l’uscita del film.
Martin Esslin, fondamentale critico teatrale, autore della locuzione “Teatro dell’assurdo”, scrisse questo giudizio in merito all’opera prima di Pinter, il dramma in un atto La stanza:
«Troviamo qui la crudele accuratezza nella riproduzione della futilità dei discorsi di tutti i giorni; la situazione ovvia e normale viene gradualmente trasformata dalla minaccia, dalla paura e dal mistero; la deliberata omissione di una spiegazione o di una motivazione di ciò che avviene». (Martin Esslin, “Il teatro dell’assurdo“, Roma, Edizioni Abete, 1980)

Pur con tutte le riserve del caso, leggendo questa analisi non ci si può stupire di come il testo di Shaffer sia cambiato tra le mani di Pinter. Confrontandolo con la vicenda originale (un racconto suadente, di suspense, impegnato e satirico contro la superiorità delle classi alte britanniche), sembra quasi di leggere un testo diverso.
Come nel dramma di Shaffer, dietro la battuta più sciocca o più ordinaria si cela sempre qualcosa che definisce i personaggi. Ma in questa versione pinteriana scompare ogni desiderio di rappresentare lo scontro sociale tra una piccola borghesia e l’orgogliosa aristocrazia britannica (in preda ai fumi del sogno della supremazia imperiale). Si torna a una dimensione più umana. Il giovane e aitante Tindle e l’orgoglioso e facoltoso Wyke sono due personaggi agli antipodi, ma animati da una forza che li porterà inevitabilmente ad attrarsi solo per farsi creativamente del male, in un curioso rapporto di odio-amore.
Anche qui, come nel dramma, ha luogo una lotta per la supremazia. L’obiettivo è il più totale annichilimento della dignità del proprio avversario. In una parola: umiliazione.

Ma anche in questo contesto scompare l’idea politica (presente nel testo originale) di voler rappresentare uno scontro sociale. Non si mira più a destabilizzare l’orgoglio dell’altro, legato al suo status o alle sue conquiste sociali, ma a essere colpito è qualcosa di molto più profondo e sanguigno. Inoltre l’elemento del controllo, uno strumento attraverso cui i personaggi della commedia di Shaffer ottenevano quello che volevano, nel film diventa il massimo obiettivo. Che sia – questo dominio da conquistare – una forma di potere o una forma di amore malato.
Niente è certo e tutto sfugge. In questa giostra di macchinazioni, che portano a una degenerazione di ogni forma di eleganza e stile, e allo smascheramento della natura delle parti, ogni cosa viene costantemente ribaltata e messa in discussione, perché nessuno dei due ha l’intenzione di farsi sovrastare dall’altro. I personaggi sembrano cambiare, per poi dichiarare lo scherzo, e tutto diventa sempre più serio e crudele.
Ma a un certo punto il gioco dovrà finire e, come diceva il «dolce principe» di Danimarca, quel che «non è bene, non può finire bene».
Anche il mondo esterno viene affidato all’interpretazione dello spettatore. In questa versione di Sleuth, scompare qualsiasi cosa aliena alla discussione dei personaggi e all’ambiente gelido e modernissimo che la ospita. Il mondo circostante sembra lontano, quasi inesistente, come spesso capita negli “spettacoli al chiuso” di Pinter. In questo caso i giochi, le bugie e i tranelli sono tali che non si ha idea di cosa succeda al di fuori della scena.

Caine ricorda in proposito una conversazione tra sceneggiatore e regista. Le riprese sono in corso e uno dei personaggi parla al telefono con la moglie dello scrittore; non siamo in grado di sentire l’altra parte dell’apparecchio.
“Secondo te cosa gli sta dicendo?” – chiede il regista a Pinter, che risponde – “E chi ti dice che stia parlando con lei?”.
In veste di sceneggiatore Pinter ha completamente rivoluzionato il testo originale, riducendolo con perizia, arricchendolo di assurdi e pittoreschi botta e risposta, intervenendo sull’ambientazione, sui personaggi, sulle dinamiche che animano questi loro colloqui. Queste scelte non possono che trasformare Sleuth in una tragedia prettamente maschile, sempre concentrata su sesso e potere.
Frenetica, scattante e inarrestabile, almeno fino al colpo di scena finale.

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