
La Grecia secondo Pasolini – Intervista a Massimo Fusillo
Massimo Fusillo, professore ordinario di critica letteraria e letterature comparate all’Università dell’Aquila, ha un importante percorso da saggista che spazia e ibrida tra lo studio della mitologia antica, i queer studies, la letteratura classica e la teoria del romanzo. Due dei suoi libri, Il dio ibrido. Dioniso e le Baccanti nel Novecento (Il Mulino, 2006) e La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema (Carocci, 2007), ospitano importanti riflessioni sul cinema e sull’immaginario di Pier Paolo Pasolini in rapporto all’archetipo dionisiaco e in generale alla cultura classica.

In quale momento del tuo percorso di studioso hai iniziato ad approfondire analiticamente l’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini? Quali sono stati i primi spunti che ti hanno portato ad accostare la filmografia pasoliniana ai tuoi studi sul dionisismo e sulla mitologia greca?
La prima edizione del mio saggio sulla Grecia di Pasolini, apparsa per La nuova Italia, risale al 1993: in quel periodo la mia ricerca stava abbandonando lo studio delle letterature antiche, rilette sempre alla luce di teorie e metodologie moderne (soprattutto narratologia e psicanalisi), e si stava orientando sempre di più sulla ricezione contemporanea del mito. In particolare, l’idea di affrontare il cinema di Pasolini ispirato dal mito mi è venuta lavorando con Mario Martone, che iniziava a misurarsi con la tragedia greca in quel periodo, dopo la sua prima fase di spettacolarità multimediale e postmoderna. Ricordo come alcune poesie di Pasolini interagissero splendidamente con vari brani di tragedia greca nello spettacolo Neottolemo, libero collage ed esperimento drammaturgico di grande fascino. Il mio interesse per il dionisismo viene poco oltre, quando ormai la mia impostazione comparatistica si era pienamente affermata: e credo ancora che Teorema vada letto anche e soprattutto come una delle metamorfosi novecentesche di Dioniso.
Si può indicare cronologicamente un momento di “inizio” dell’avvicinamento di Pasolini all’immaginario classico? La sua traduzione dell’Orestea per Vittorio Gassman datata 1960 è il primo lavoro significativo di P.P.P. sui classici, o si possono riscontrare avvisaglie nelle liriche o nei saggi su rivista degli anni Cinquanta?
La traduzione dell’Orestea è sicuramente il primo lavoro in cui Pasolini affronta la tragedia greca: il suo primo confronto pubblico da poeta con il mondo antico, che ebbe un forte impatto e suscitò non poche polemiche, coincidendo fra l’altro con la svolta cruciale della “conversione” al cinema – una coincidenza molto significativa, dato che Pasolini vedrà poi nel cinema il linguaggio più adatto a esprimere il mito e il sacro. Prima di quella data, abbiamo tanto materiale non pubblicato in vita, come le traduzioni da Virgilio e Sofocle, o il frammento del dramma Edipo all’alba, ora disponibili nell’Opera omnia dei Meridiani Mondadori, e ancora altro materiale inedito che sta riemergendo in occasione di questo centenario dalla nascita.

L’incipit dell’Edipo re di Pasolini fa esplicito riferimento al freudiano complesso di Edipo, anche in chiave autobiografica, ma dall’inventario della sua biblioteca curato dalla cugina Graziella Chiarcossi risultano in suo possesso anche diverse opere di Jung. In che modo pensi che il rapporto con la psicoanalisi abbia nutrito il cinema pasoliniano? Cosa in esso è esplicitamente freudiano, e quanto invece può essere ricondotto alla psicologia archetipica e alle sue teorie sugli archetipi?
Pasolini ha dichiarato una volta che la lettura di Freud è stato un momento fondamentale della sua esistenza negli anni dell’Università, e lo ha sottolineato anche con qualche esagerazione (in quegli anni non era disponibile “tutto Freud”). Assieme a Marx, Freud è stato un caposaldo della formazione pasoliniana, e gli ha offerto un quadro di lettura del mondo di straordinaria vitalità. Già però a proposito di Edipo re scriverà che si stava muovendo oltre questi due grandi pensatori razionalisti: e in effetti nella fase matura del suo itinerario creativo così eclettico e poliedrico si afferma sempre più un certo anti-razionalismo che lo spinge verso Jung e verso la teoria degli archetipi. Credo che però in generale Freud sia stato più importante, e risuoni fino all’ultimo nella sua opera, anche in Petrolio, nonostante i punti di riferimento primari fossero diventati altri.
Dal tuo punto di vista e sulla base dei documenti in nostro possesso, Pasolini quale conoscenza aveva invece della filosofia di Nietzsche e in particolare della Nascita della tragedia?
Sicuramente Pasolini aveva una conoscenza diretta del libro di Nietzsche: ne ha tratto anche alcune nozioni, soprattutto l’idea dell’obbligo di sapere nell’Edipo re, ma non è mai stato uno dei suoi testi chiave. Forse Pasolini risentiva ancora di un pregiudizio della cultura di sinistra, che ha riscoperto questo pensatore in una fase ulteriore.
Come hai evidenziato nel tuo La Grecia secondo Pasolini, Pasolini ha adattato al cinema una tragedia di ciascuno dei tre tragici, l’Edipo re di Sofocle, la Medea di Euripide e l’Orestea di Eschilo – quest’ultima negli Appunti per un’Orestiade africana oltre che nella traduzione teatrale. Al tempo stesso, come evidenzi nel tuo Il dio ibrido, anche Teorema del 1968 è strettamente imparentato con Le Baccanti euripidee, e si può contestualizzare in un generale revival del dionisismo negli anni della contestazione. Quali film o spettacoli teatrali significativi sono nati, in quegli anni, che si riallacciavano alla figura di Dioniso? In questo revival del dionisismo quanto erano importanti direttamente l’insegnamento e le generalizzazioni di Nietzsche nel secolo precedente, e quanto invece erano influenti i più recenti percorsi di figure quali Bataille, Artaud, Klossoswki?
Nel revival del dionisiaco negli anni sessanta, lo spettacolo chiave, che ha avuto un impatto epocale, è stato Dionysus in 69 di Richard Schechner, il grande teorico americano della performance, andato in scena a New York dal 1968 al 1969. Da lì inizia una nuova maniera sperimentale di rileggere il teatro antico, e in particolare una nuova vitalità delle Baccanti, fenomeno in cui La nascita della tragedia gioca un ruolo primario. Lo spazio inedito dato alla danza, al corpo e al rito viene, nella sperimentazione teatrale, direttamente da Nietzsche, anche se l’influsso di Artaud è stato ancora più corposo.
Sia in Edipo re che in Medea che nella stessa abbozzata Orestiade africana il mito veniva impiegato in funzione critica nei confronti del presente. Tutti e tre i film peraltro sono stati girati per una larga parte al di fuori dell’Italia, nei paesi del Terzo Mondo. In che misura è presente in essi una proto-riflessione sul neocolonialismo?
C’è sicuramente un’anticipazione in Pasolini di molte tematiche degli studi postcoloniali, soprattutto per la valorizzazione delle culture subalterne e per la decostruzione di ogni eurocentrismo; ma c’è anche spesso un atteggiamento ancora di stampo estetizzante e decadente nei confronti del Terzo Mondo, di cui Pasolini mitizza una purezza e un’innocenza originarie. Su questa ambivalenza Luca Caminati ha scritto un libro molto acuto, Orientalismo eretico.

Nell’adattare al cinema tre tragedie, come pensi che Pasolini abbia cercato di “risolvere” cinematograficamente il ruolo del coro tra l’Edipo re, Teorema, Medea e l’Orestiade africana?
Il coro è l’elemento più problematico della tragedia greca per i registi moderni: il più difficile da rendere e da riusare. Pasolini affermava che lo aveva ritrovato nei suoi viaggi in Africa, assistendo in Sudan a feste rituali; e in effetti gli Appunti per un’Orestiade africana sono il suo film più corale, fra quelli di ispirazione mitica, con un grande rilievo alla danza, alla musica e a tutta la comunicazione non verbale. In Edipo re e in Medea troviamo di più il coro nella sua forma classica, drasticamente ridimensionato, ma comunque con una sua incisività poetica: la comunità della città che si raccoglie attorno al proprio re per Edipo, la comunità femminile che accompagna la straniera in Medea. Cinematograficamente Pasolini evita campi totali e inquadrature che vogliano suscitare l’idea tradizionale di personaggio collettivo: la sua macchina da presa si insinua all’interno del coro per svelare dettagli, frammenti di una dinamica che si immagina più articolata.
Ne La Grecia secondo Pasolini, citi un passaggio della poesia-Avvertenza posta al termine di Alì dagli occhi azzurri in cui si legge che “Ninetto è un messaggero”. Sia nell’Edipo re, che in Teorema, il personaggio interpretato da Ninetto Davoli viene chiamato en passant Angelo, in un gioco di parole etimologico con il greco ἄγγελος. Considerando l’importanza drammaturgica che nelle originali tragedie greche rivestiva il ruolo del messaggero, spesso chiamato a riferire al pubblico e ai protagonisti eventi dell’antefatto o lasciati fuori-scena, che funzione svolge ai tuoi occhi Ninetto Davoli in questi due film-tragedia, e in generale lungo il cinema pasoliniano? Di che genere di messaggio è Angelo o “messaggero”?
Anche nelle sue poesie Pasolini parla di Ninetto come di un messaggero, e dichiara di aver preso da Elsa Morante questo motivo umoristico e popolaresco, che rientra nella sua fascinazione per i ragazzi “barbari” e sottoproletari. Credo che sia un elemento di straniamento: uno sguardo di vitalità sfrenata (Ninetto arriva sempre saltando e quasi danzando, e fischiettando allegro) che smorza la tensione tragica. Interessante notare che Ninetto resterà legato a questo ruolo anche nei film non di Pasolini: fa la parte del messaggero, ad esempio, ne La Tosca di Luigi Magni.

Parlando di Cremaster di Matthew Barney ne Il dio ibrido scrivi che “riprendendo Sade e Bataille, il pensiero novecentesco è tornato più volte sulla perversione come forma di recupero di un’unità del sacro”. Pasolini stesso, che avrebbe adattato de Sade per il suo ultimo film Salò, ha indagato le polarità del rapporto tra sacro e sessuale in Teorema. Quali altri esempi di commistione tra sessualità e sacralità si possono riconoscere nella cultura occidentale del Novecento? Secondo te, quanto forte può essere stato per il Pasolini di Teorema l’influsso di August Strindberg, il drammaturgo scandinavo vissuto a cavallo tra Otto e Novecento e brevemente in rapporto epistolario con Nietzsche?
La sessualità come sostituto del sacro è un Leitmotiv che attraversa tutta l’opera di Pasolini e trova il suo punto culminante in Medea. Da questo punto di vista per lui contano soprattutto le letture di antropologia e di storia delle religioni: James Frazer, Mircea Eliade. Con Strindberg ci può essere una consonanza sottile e profonda, più che una ripresa diretta, il che è ancora più interessante.
Nietzsche ha trascorso gran parte del suo percorso da filosofo contrapponendo Dioniso e Cristo, per poi far apparentemente coincidere Dioniso e “il Crocifisso” nei biglietti della follia. Sin dalle prime mosse del suo rapporto col mito greco, Pasolini sembra puntare invece a un’intersezione tra il cristianesimo, perlomeno il cristianesimo popolare, e l’immaginario classico: in Teorema arriverà a proporre una figura a metà strada tra Dioniso, Gesù come “pietra di scandalo” che scaccia i mercanti dal tempio, e il Dio veterotestamentario invocato dai profeti come sacra irruzione. In che modo secondo te si espletava il dialogo tra una matrice cristiana e una matrice “pagana” all’interno del cinema e in generale dell’immaginario pasoliniano? Mettendo da parte le sue critiche alle gerarchie cattoliche e al loro impossessarsi del messaggio evangelico, Pasolini indicava una chiara linea di confine tra classicismo e cristianesimo, o faceva rientrare entrambi in un comune sentimento istintivo del sacro?
Tendeva a farli rientrare in un comune senso del sacro, che però non chiamerei istintivo: il sacro per Pasolini è una dimensione culturale fondamentale, che sfugge al controllo della razionalità borghese e della tecnologia neocapitalista; un modo di leggere e percepire l’ambiguità misteriosa del reale che lui ha ricercato per tutta la vita in fenomeni molto disparati fra di loro: il Friuli contadino, il sottoproletariato romano, il cristianesimo primitivo, il mito greco, il Medioevo popolare, il Terzo Mondo, la sessualità compulsiva, il sadomasochismo….Da questo punto di vista ci sono in lui un eclettismo e un universalismo spinti all’estremo.
“Io sono una forza nel passato/Solo nella tradizione è il mio amore”, scriveva Pasolini in Poesie in forma di rosa e faceva ribadire da Orson Welles ne La ricotta. Quali elementi di attualità si possono riconoscere, dal suo punto di vista, nella prospettiva mitica di Pasolini? Quanto certi passaggi e certe raffinatezze di introspezione di Teorema libro e film e dello stesso Edipo re possono essere collegati con i movimenti e le teorie queer sorti negli ultimi decenni?
La rilettura del mito da parte di Pasolini ha ancora molto da dirci per la sua potenza espressiva, per il suo spessore culturale, per la sua inventiva realmente mitopoetica. Il suo Edipo re resta una delle riletture più significative di questo mito così ricco di valori simbolici, e nello stesso tempo una dalle migliori realizzazioni filmiche della tragedia greca, e lo stesso vale anche per Medea, nonostante il suo carattere più involuto. Pasolini è molto lontano dalla performatività queer e dalla fluidità di genere, ma Teorema è certamente il suo film che più va in quella direzione. L’ospite misterioso, Cristo e Dioniso allo stesso tempo, è un fattore destabilizzante di ogni identità, e in quanto tale ha un forte potenziale queer. Non è un caso che è stato riletto in questa chiave dall’artista di Singapore Ming Wang nella video-installazione “Devo partire. Domani”, ambientata a Scampia e interpretata in tutti i ruoli dallo stesso artista.

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