
Debito di sguardo – Fellini, Luigi Ghirri e la provincia che non sa raccontarsi | Fellinopolis
Un uomo cammina lungo una strada che costeggia il mare, una donna sta stendendo il bucato, canticchiando una canzone. Sullo sfondo dei bambini giocano in uno spiazzo, e un po’ più lontano, un tendone da circo e una giostra.
Questo è un momento de La Strada di Federico Fellini, il primo film, datato 1954, della sua consacrazione internazionale: fiaba amara ambientata nel mondo del circo ambulante, con un lieve retrogusto cristiano, che ruotava attorno all’indefinibile rapporto tra la giovane di provincia Gelsomina (Giulietta Masina) e il saltimbanco Zampanò (Anthony Quinn), che le insegnava a suonare la tromba. La Strada è ricca di sequenze rimaste nell’immaginario collettivo, ma quella scena in particolare, apparentemente ininfluente nello sviluppo narrativo del film, gemmò negli occhi di uno spettatore d’eccezione: Luigi Ghirri.

Luigi Ghirri, nato nel 1943 e morto nel 1992, è stato forse il maggiore fotografo del secondo Novecento italiano, quello più richiesto per mostre ed esibizioni anche a livello internazionale. Sodale di Gianni Celati e di Lucio Dalla, per cui realizzò diverse copertine di album, Ghirri era nato a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, e si era fatto conoscere soprattutto per le sue vedute di provincia, caratterizzate da un marcato gusto retrospettivo ma mai nostalgico: i suoi paesaggi erano colti in una dimensione sospesa quasi metafisica, ma che non temeva di approcciarsi anche agli elementi di modernità che affioravano nel paesaggio.
Ghirri, di cui recentemente Quodlibet ha dato alle stampe un’interessante raccolta di saggi, dichiarazioni e interviste con la stampa, è sempre stato molto generoso e discorsivo nell’enunciare i principi della sua concezione della fotografia, le origini della sua passione e il senso anche intellettuale che rivestiva, per lui, il ruolo del fotografo. Quanto ai suoi maestri e ispiratori, accanto a nomi più canonici come il grande fotografo americano Walker Evans, Ghirri era solito citare anche Federico Fellini – e non per l’insieme della sua opera, ma per quella specifica scena de La Strada. Una manciata di secondi che rappresentano in un certo senso la scena originaria da cui poi si è definito il corpus fotografico di Ghirri.

«Credo che quel momento si sia fissato bene nella mia testa; la musica, il telo bianco, la giostra, le case, e in fondo, l’apparizione del mare», dichiarò Ghirri in un suo scritto. «In questi pochi attimi, in questo aspetto così domestico, privo di enfasi e di retorica, in questo incontro molto dolce, mi si è rivelato tutto un modo nuovo di guardare nel paesaggio». Tra Fellini e Ghirri c’era una comunanza di origini, entrambi erano emiliani ed entrambi nutrivano per la provincia d’origine uno sguardo in cui l’analisi non era mai discinta da un incanto un po’ leopardiano per il borgo, la contrada, per quell’insieme di purezza e di claustrofobia che caratterizza la vita in una provincia o in un paese: e in quella specifica micro-sequenza de La Strada, Ghirri ritrovava «l’idea di un paesaggio marino, una visione che diventa familiare» tanto da essere «scena ideale per il gioco della vita, che si muove su un fondale apparentemente fisso ed immutabile».

Luigi Ghirri nei suoi scritti spesso si rifaceva a una frase di Giordano Bruno, secondo cui pensare è speculare per immagini. Le sue fotografie non hanno mai avuto nulla o quasi nulla di quell’impianto da denuncia civile che invece ha sempre caratterizzato l’opera di altri fuoriclasse della fotografia italiana come Letizia Battaglia: respirando esclusivamente dello specifico fotografico, Ghirri utilizzava la sua macchina fotografica come strumento di pensiero a sé stante, tracciando un discorso con la contemplazione, e con la scelta precisa della successione delle sue fotografie.
Al tempo stesso, negli interventi scritti e nelle presentazioni dei cataloghi delle sue mostre Ghirri si dimostrava anche un fine prosatore, sensibilmente attento alle trasformazioni sociali dell’Italia e alle novità in ogni genere di arte. E se il suo amore tardivo per il Blade Runner di Ridley Scott può forse risultare un po’ sorprendente, sul cinema di Fellini Ghirri tornò più volte, e non solo per ribadire il suo debito di sguardo nei confronti de La Strada. «Le meditazioni metafisiche, con gli assemblaggi di storia e presente, si associano alla poetica del paese che, sottoposto ad analisi microscopiche, diventa per analogia, da microcosmo di partenza, macrocosmo»: così Ghirri sintetizzava e parafrasava I Vitelloni, un altro dei caposaldi della cinematografia felliniana, soffermandosi con empatica amarezza sulla scelta del giovane Moraldo, che al termine del film abbandona di nascosto Rimini per trasferirsi a Roma.

Nel corso della sua quarantennale esperienza cinematografica, Fellini spaziò moltissimo in termini di ambientazione, andando dalle provincie sospese e annoiate de La Strada o I Vitelloni alla bulimica Roma de La Dolce Vita, per poi tornare indietro nel tempo con il Satyricon e il Casanova o creare spazi interamente mentali con opere quali 8 e ½, Giulietta degli Spiriti o La città delle donne. Anche Ghirri fu un fotografo piuttosto sfaccettato e poliedrico che, anche al di là della sua amicizia personale con Dalla, per tutta la sua carriera continuò a realizzare anche servizi fotografici “su commissione” per istituzioni o brand di vario tipo; tuttavia, nell’immaginario collettivo, Ghirri si è imposto soprattutto come paesaggista, per i suoi ritratti accorati di vedute balneari e sentieri sospesi all’orizzonte, scattati per la massima parte in quell’Emilia in cui era nato e da cui non si era mai definitivamente allontanato.

Ne La luce abbraccia tutto, un’intervista datata 1985 e concessa da Ghirri al collega ed editore Claude Nori, il grande fotografo chiarì i termini del suo suo rapporto estetico con la provincia, con una chiarezza che di rado avrebbe raggiunto in altre sedi. «Forse la provincia è il luogo per antonomasia, mescolanza di affetto e ripulsa, luogo dove si incrociano odio e amore, il tutto e il nulla, la noia e l’eccitazione», e fin qui siamo nell’ovvio detto bene. «Non ritengo che la mia opera sia limitata ad una dimensione provinciale», ribadiva però Ghirri, «non intendevo trasformare le province nel simbolo dell’universo, ma le ritenevo un adeguato punto di partenza; poiché il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia». E qui le cose cambiano.

È in quest’ultima dichiarazione di principio che si ritrova il senso di tutta l’operazione visiva compiuta da Ghirri, e si comprende anche una scheggia del cinema di Fellini, il suo cinema delle origini, quello più provinciale ritrovato poi nell’ultimo La voce della luna: se il vero simbolo della provincia è essere incapace di raccontarsi, le opere di Ghirri o di Fellini non potevano “riscattarla” – sarebbe stato paternalista – potevano però, e questo hanno fatto, esorcizzare questa impasse enfatizzandola, rendendo la cifra stilistica con cui inquadrare la provincia stessa. Tra i vitelloni annoiati di Fellini e le strade sospese di Ghirri, c’è la comunanza di un conato, teso a volte a ribadire retoricamente l’orgoglio di un’appartenenza, altre volte invece ad imitare invano la città. Ma è proprio in questi tentativi di volo che la provincia di Fellini e Ghirri trovava la sua poesia, e si faceva correlativo visivo di quel “fondale apparentemente fisso ed immutabile” su cui, apparentemente, tanto i personaggi dell’uno quanto le figure umane dell’altro giocavano alla vita.
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