
L’odore del fuoco. Intervista a Davide Orecchio su Qualcosa sulla terra

Davide Orecchio (Roma, 1969) è uno scrittore italiano. Esordisce nel 2011 alla narrativa con Città distrutte: sei biografie infedeli (Gaffi, poi il Saggiatore 2018); tra le sue successive pubblicazioni si ricordano Stati di grazia (Il Saggiatore, 2014), Mio padre la rivoluzione (Minimum Fax, 2017), e Storia aperta (Bompiani, 2021), in shortlist per il premio Strega. Esce il 3 dicembre per Industria & Letteratura, nella collana L’invisibile diretta da Martino Baldi, il suo racconto Qualcosa sulla terra, un ardito esperimento narrativo che mescola elementalità, sensorialità, un’originale prospettiva animale sul Coronavirus e una riflessione sfaccettata sul concetto di città.
Quali diverse ispirazioni si sono assommate nella concezione di Qualcosa sulla terra a livello di spunti letterari, cinematografici o concettuali?
La parte centrale del racconto, che potremmo definire un racconto d’inverno, popolata da gatti e cani e da gabbiani e corvi, si muove in un mondo sottosopra tipico della favola e dell’immaginazione post-disneyana. E quello è: una favola; che dunque conserva un’infinita tradizione di riferimento impossibile, qui, da elencare. La mia idea era di scrivere una specie di racconto di Natale, che quindi contenesse elementi fiabeschi e morali, e che esponesse a suo modo le emergenze del nostro tempo: la malattia, la povertà, la solitudine.
Tutta la prima parte di Qualcosa sulla terra presenta una forte opposizione tra “le città che stanno sull’acqua, che si fanno attraversare da lei nei quartieri, che sonnecchiano al suo fianco e si svegliano, che lavorano rasserenate dallo sciabordio”, “tutte città del nord”, e le “città del sole e del fuoco” che restavano al Sud, “come quella dove ero entrato nel mondo”. Riflessioni a metà strada tra il concettuale e il narrativo sul concetto di città rappresentano nella letteratura italiana un topos, che vede in Calvino il suo portavoce più noto. Quali sono i riferimenti della tua riflessione sulle città, e come pensi sia cambiata la tua percezione di queste dai tempi del tuo debutto letterario ad oggi? Trattavi queste tematiche anche nel tuo libro d’esordio Città distrutte?
Esistono molte città d’acqua e sono spesso, soprattutto in Europa, settentrionali. Venezia, Copenaghen, Amsterdam, Stoccolma, Helsinki, Amburgo … Cioè non semplici città portuali o attraversate da fiumi, ma centri organizzati per abitare l’acqua e accoglierla in una rete di arterie. Io, come la stragrande maggioranza degli esseri umani, abito in una città, e mi è capitato di visitarne altre. La città dove vivo, Roma, è meridionale e d’estate è sempre più infuocata. Direi che nemmeno evapora, perché non ha più liquidi da offrire. Ed è naturale che questi luoghi, questi temi, entrino concretamente, senza ambizioni concettuali o astrazioni, nella mia scrittura quando scelgo di raccontare quanto mi circonda. Certo Le città invisibili di Italo Calvino è un’opera magistrale, nel senso che ha mostrato, insegnato, proprio la natura narrativa di una città, vera o inventata che sia, non semplice sfondo o ambientazione ma protagonista del racconto. Il mio primo libro invece, nonostante il titolo Città distrutte, con questo discorso c’entra poco: quella era una metafora che alludeva a tutt’altro, al nostro rapporto con la storia e alle ammaccature che ci lascia. Ma nei miei libri, proprio perché sono un cittadino, le città le racconto sempre.
Anche al di là del discorso sulle città, tutto il tuo racconto è attraversato da un binarismo di coppie ataviche, tra cui il contrasto acqua/fuoco è il più ricorrente – si avverte un vero e proprio primitivismo della scrittura, se vogliamo. Quanto pensi che questa insistenza sull’antitesi e sull’elementale arricchisca l’esperienza del lettore? Dalla tua prospettiva, l’attenzione per gli elementi primari ti agevola a visualizzare ciò di cui stai parlando, o è un tentativo di astrazione verso concetti archetipici?
La tua analisi è suggestiva ma ci tengo a precisare una cosa: nella parte iniziale del libro – il racconto d’estate che racchiude e precede il racconto d’inverno – ho scritto semplicemente rispecchiando quanto vedevo, respiravo, leggevo. Roma era assediata dagli incendi. Rientravo da un breve soggiorno a Venezia e, dunque, è tutto qui: avevo negli occhi e nella mente l’acqua e il fuoco, e sono entrati nelle mie pagine perché in quel momento non avrei potuto scrivere di altro, ne ero passivamente suggestionato, impressionato, il mio racconto è stata una reazione agli elementi che dominavano la mia vita.
Piuttosto presto all’interno del racconto si inizia a parlare di una “malattia che toglie il respiro”, “una malattia diffusa, contagiosa e spesso mortale che illudeva gli esseri umani di ritrovarsi uguali nella sofferenza, nella cura, nel trapasso o nella guarigione, eppure era vero il contrario, i poveri erano sempre più poveri e i ricchi più ricchi”. A cosa si deve questa scelta di descrivere il Coronavirus con precisione senza mai nominarlo? Dal tuo punto di vista come pensi che avverrà la rielaborazione letteraria e narrativa della pandemia, di qui a 10 anni?
Alla prima domanda rispondo: volevo evitare di incorrere in un linguaggio d’attualità, giornalistico se vuoi, e mantenermi sul confine tra l’essere nel nostro tempo e l’essere fuori dal nostro tempo. Alla seconda domanda rispondo che non c’è risposta certa. Dipende da come ci comporteremo. Rimuoveremo, dimenticheremo gli anni del Covid oppure ne custodiremo la memoria? Letteratura, cinema, teatro, serie tv saranno una conseguenza della direzione – una delle due – che prenderemo. Forse affioreranno memorie private: sono morte centinaia di migliaia di persone, e altrettante ne conservano il ricordo. Eppure atroci epidemie e malattie, in passato, non hanno “ricevuto” alcun racconto. Altre invece, come la tubercolosi o la sifilide, hanno ispirato romanzi e persino opere liriche. L’Aids, se ci pensi, è stato raccontato molto poco, seppure in romanzi, memoir e opere cinematografiche che hanno lasciato il segno (Harold Brodkey, Jonathan Demme e altri autori e opere più recenti, ora che c’è una distanza storica). Il cancro è ormai un protagonista assoluto del racconto collettivo. Molto dipende dal grado di storicizzazione e superamento medico di un male. Se il Coronavirus, come sembra, si “normalizzerà” in gestione quasi-influenzale e assumerà carattere episodico e non emergenziale, potremmo forse dimenticarlo, non raccontarlo. Tuttavia, come ci spiegano epidemiologi e scienziati, questa categoria di malattie è destinata a riproporsi, perché scaturisce dalle radicali trasformazioni dei nostri tessuti urbani in relazione alla natura e alle specie selvatiche: allora, probabilmente, ne parleremo e racconteremo molto.
La seconda parte del tuo racconto mette in scena una prospettiva inedita di animalità, raccontando attraverso la prospettiva di due gatti e un cane, i cui padroni sono finiti in terapia intensiva, il periodo del Coronavirus. Come è nata in te l’intuizione di raccontare un passaggio cruciale del testo attraverso una prospettiva animale, e quali regole stilistiche e narrative ti sei dato per rispettare una prospettiva non umana?
Gli animali del racconto in minima parte sono umanizzati, perché parlano, adottano un linguaggio umano. E anche la quest che si scatena per le vie della città, la ricerca degli umani perduti, è fiabesca e non naturalistica. Detto questo, ho voluto raccontarle come creature affezionate alle loro compagne e compagni della razza umana, scomparsi per una misteriosa malattia, portati via da macchine rumorose e luminose; compagne e compagni da ritrovare e riportare a casa a tutti i costi. Sono animali mossi dall’amore, insomma.
Pensando alle precedenti pubblicazioni della collana L’invisibile di I&L, qualcosa del reportage lo aveva anche, per inciso, Una storia vera di Nicola Feninno, così come La casa in fiamme di Filippo Polenchi presentava una reiterata attenzione per l’elemento del fuoco, a voler cercare parallelismi. Come è nato il tuo rapporto con Industria&Letteratura? Se si può essere generici, ti trovi più a tuo agio con la letteratura “lunga” o con quella breve?
Martino Baldi, che stimo e mi stima, mi ha chiesto un racconto per la collana. Avevo in mente il racconto d’inverno, e le incursioni nel racconto d’estate mi hanno aiutato a estenderlo. Forse mi trovo meglio nella forma medio-breve: i racconti e le storie di Città distrutte e Mio padre la rivoluzione. Ma lo dico anche perché scrivere e strutturare un romanzo è assai più faticoso, non se ne vede la fine. Quindi sospendo la mia risposta.
“Chi è senza parole è spesso indifeso oppure, al contrario, chi è senza parole aggredisce”, si legge nelle prime pagine del tuo racconto. Se potessi deciderlo tu, con quale sensazione vorresti che i lettori si risvegliassero, arrivati all’ultima pagina di Qualcosa sulla Terra?
Con un desiderio di solidarietà.
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