
Arancia Meccanica – Tra musica e istinto
In un futuro alternativo (al nostro) un ragazzo di nome Alexander DeLarge (Malcolm McDowell) – insieme alla sua banda di «drughi», Georgie, Pete e Dim – si diverte a mettere in pratica senza alcun freno le sue passioni tanto scellerate, quanto perfettamente coerenti con la sua indole. Tutti i suoi hobbies sono infatti circoscritti ad un ben definito ambito, ovvero «l’esercizio dell’amata ultraviolenza». Questa comprendiamo essere, sin dalla sequenza-prologo introduttiva, il fulcro teleologico della sua esistenza. L’estrema peculiarità del personaggio sarà il mezzo attraverso cui il mondo esterno cercherà di manipolarlo e assoggettarlo – senza mai riuscirci davvero. La sua natura sarà il seme dello scandalo e della sua spiazzante rivincita. Durante il procedere della narrazione, il nostro Alex ci invita a far fraternamente parte della sua brutale e bizzarra vita. Sono queste le coordinate essenziali di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick che, a distanza di 50 anni dall’uscita, è ancora capace di turbare lo spettatore nel profondo.
La musica (paradossale) che Kubrick inserisce nella colonna sonora, connota il personaggio di Alex sin dal principio. Da un lato, questa lo esclude dal sottoinsieme comprendente tutte le figure stereotipate riconducibili al Sessantotto, dall’altro rappresenta l’oggetto con cui intrattiene il suo rapporto più morboso e vincolante. Egli da una parte rifiuta in toto il sistema di valori istituzionalmente e eticamente maggioritarii, dall’altra ritiene Beethoven il suo supremo maestro. I suoi colpi sono sferrati al ritmo de La gazza ladra di Rossini ed i suoi amplessi con giovanissime ragazze – che nell’opera di Burgess gli costarono la prigione – sono scanditi dalle note di un rapidissimo ed elettronico Guglielmo Tell. I compositori citati, dei quali all’epoca non si poteva certo dire che non facessero parte di un canone istituzionale della «musica classica», sono alcuni tra gli artisti che più influenzano il protagonista, nonostante l’evidente lontananza dalla musica di ribellione degli anni Settanta. E questo è senza dubbio un elemento sconcertante, che non ci permette di inquadrare il personaggio all’interno della sfera del reale. La musica, dionisiacamente intesa, è qui per certo funzionale all’espressione reificata dell’istinto.
L’istinto che si fa immagine senza veli o filtro avvicina Alex talvolta alla figura dell’animale, talvolta alla figura del bambino. Quando usa la ragione si rende conto che questa è senza dubbio controproducente perché cozza contra la sua sete di distruzione: «i cervelluti si affidano all’ispirazione e a quello che il buon Bog manda loro». La musica stimola in lui un riflesso involontario: l’impulso ad agire violentemente o sessualmente (spesso e volentieri entrambe le cose sovrapposte). Allora assume un’importanza di primo piano il fatto che la «Cura Ludovico» faccia leva sulle sue reazioni. Si scatenano in lui acuti dolori non appena risuonano nell’aria le note dell’adorata Nona del Beethoven. L’istinto è proprio ciò che lo rende vivo e vitale, che fa di lui un essere nella sua unicità. Quando gli altri tre drughi cercano di di finalizzare la loro violenza all’accaparramento di beni, quasi a voler razionalizzare le loro azioni, Alex risponde loro: «Se avete bisogno di un’auto, la cogliete da un albero». La violenza come arma fine a sé stessa, per cui mezzo e fine formano un tutt’uno. Il suo assurdo istinto, al contempo immutabile e inappagabile è la medicina che gli permette di guarire da ogni malattia o «cura» – «Ero proprio guarito»/«I was cured, all right!»
Il suono, inteso anche come phoné, è dunque centrale. Il ritmo cadenzato del dialogo sui trampoli, la prosodia estremamente comica che viene sfoggiata (non solo) nelle sequenze di violenza, sono parte integrante della perfetta musicalità dell’opera. È fondamentale, in proposito, la scena del pestaggio nei confronti di un clochard intento a cantare una canzone popolare irlandese ed in seguito a deprecare l’epoca contemporanea. Proprio quando quest’ultimo cessa di cantare la canzonetta popolare, comincia ad esprimersi attraverso una cadenza ritmica che potremmo definire caratteristica di una «prosa» (pedantescamente) lirica, il cui contenuto moralistico di sapore retorico è funzionale all’effetto comico che il regista vuole creare. Il contrasto tra la comicità del film e la disarmante violenza mostrata produce una collisione tra questa e la disarmante violenza mostrata.
D’altronde, a cinquant’anni dall’uscita, il tema della violenza è il motivo per cui il film viene ancora oggi ricordato nella cultura popolare. Lo shock da questa suscitato spiega inoltre l’enorme successo al botteghino che all’epoca il film ebbe in tutto il mondo. La traccia indelebile nella storia del cinema viene confermata dall’utilizzo smodato della violenza nei film d’exploitation degli anni successivi. Si pensi ad esempio a quante pellicole ispirate agli episodi del «Massacro del circeo» sono state realizzate in Italia nel corso degli anni ’70, tutte caratterizzate da un’ispirazione palesemente Kubrickiana e voyeuristica della violenza. Ma questa tendenza verso una violenza sempre più visibile e messa in campo deriva da una serie di episodi tra loro collegati: in primis i film horror della Hammer – a cui Kubrick fa un tributo vestendo Alex con i panni del Dracula di Cristopher Lee – nonché i western di Sam Peckinpah e di Sergio Leone. Non è un caso allora che solo un mese prima fosse uscito nel Regno Unito l’altro film fondamentale, estremamente violento e per certi versi opposto (ma speculare) al film di Kubrick, ovvero Cane di paglia, proprio del sopracitato Peckinpah.
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