
Tra Nabokov e Kubrick – Riguardare (e rileggere) Lolita nel 2022
È il 1962 quando Stanley Kubrick ultima il suo Lolita, adattamento dell’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov che, quasi dieci anni prima, sconvolse il mondo. Da allora di anni ne sono passati ben sessanta, ma approcciarsi a Lolita, tanto al romanzo quanto all’opera filmica (non solo, quindi, quella firmata da Kubrick, ma anche quella realizzata nel 1997 da Adrian Lyne), continua ad essere un’operazione complessa: la storia di un uomo di mezza età ossessionato da una ragazzina pubescente è un argomento tabù in tutte le epoche.

Il pubblico già nel 1962 aveva avuto modo di confrontarsi con i ritratti di mostri, personificati e metaforici, offerti da Kubrick nei precedenti Il bacio dell’assassino (Killer’s Kiss, 1955), Rapina a mano armata (The Killing, 1956) e Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957). Ma già alla prima apparizione sullo schermo, Humbert Humbert (interpretato dal volto solenne di James Mason) fa subito intendere di essere qualcosa di diverso: un essere contraddittorio e perverso, come ogni scena del film di cui è protagonista.
L’adattamento di Kubrick, infatti, complice l’intervento dello stesso Nabokov alla stesura della sceneggiatura, riprende battute e passaggi direttamente dal libro, quasi parola per parola: l’attenzione a questi piccoli dettagli è un tratto distintivo del modus operandi del regista newyorchese.

Kubrick, da parte sua, rielabora la pungente ironia che pervade tutto il romanzo, espressa su carta attraverso giochi di parole, modi di dire in lingue straniere e uno stile raffinato e barocco: se nel libro, Humbert Humbert è “bruciante di desiderio e dispepsia”, nel film questa componente comica viene espressa, da una parte, dalle lunghe (lunghissime) gag fisiche, che in modo piuttosto goffo riportano James Mason ai tempi della screwball comedy e, addirittura, delle comiche mute di Laurel e Hardy.
Inoltre, la presenza del trasformista Peter Sellers nel ruolo di Clare Quilty, personaggio secondario nel libro, in grado di risaltare solo alla fine, lo trasforma in un vero e proprio coprotagonista, opposto simbolico di Humbert Humbert, caratterizzato da monologhi disordinati e caotici.

È qui, tuttavia, che entra in gioco una componente problematica: per quanto fedele al libro, l’adattamento cinematografico, per ovvi motivi di censura, è stato “pulito” di tutte le espressioni esplicite del romanzo – basti pensare al primo rapporto tra Humbert e Lolita, che viene lasciato all’immaginazione dello spettatore dopo una dissolvenza a nero, mentre nel libro la descrizione ha l’intento di disgustare e sconvolgere il lettore.
Nemmeno un autore all’avanguardia come Kubrick, pur volendolo, sarebbe riuscito a riportare fedelmente le confessioni erotiche e morbose di Humbert nei confronti non solo di Lolita, ma anche di tutte le “ninfette” che le assomigliano: nell’adattamento di un romanzo in prima persona, le convenzioni cinematografiche costringono all’inevitabile perdita delle sensazioni dirette che dona un io narrante coincidente con un io narrato.

Per questa ragione, nel film viene omesso tutto ciò che rende Humbert Humbert un autentico mostro: la sua ossessione per le ninfette, nata dal “trauma” della morte del suo primo amore a 14 anni, i suoi ricoveri in ospedali psichiatrici, la costante brama morbosa per Lolita e la sua progressiva discesa nella follia man mano che si raggiunge il finale – il famoso omicidio di Quilty, che Kubrick decide di porre come scena d’apertura del film, un inizio da murder mystery. Charlotte, addirittura, appare come una donna frustrata e isterica, e il disprezzo di Humbert nei suoi confronti è meno aggressivo di come traspare dal libro.
Attraverso la censura estrema delle tematiche, lo spettatore si ritrova quasi a simpatizzare per Humbert stesso, come riporta il critico Greg Jenkins, che lo definisce come «un prigioniero dell’Europa del Vecchio Mondo in una parte volgare del Nuovo Mondo»: ciò giustifica la sua goffaggine, che scatena quasi tenerezza. Lo stesso Jenkins ritiene che sia addirittura Quilty a rappresentare l’altro lato della medaglia di Humbert, poiché viene ritratto non solo come un alcolizzato in grado solo di parlare a sproposito, ma anche come uno stalker ante litteram, che insegue Humbert come un’ombra e che, alla fine, tenterà di portare la stessa Dolores sulla via della perdizione, come se l’intera avventura con Humbert fosse stata una passeggiata.

In questa ottica, il film di Kubrick si presenta come il primo esempio del cosiddetto lolitismo (ovvero, l’atteggiamento che porta a “comportarsi come una Lolita”) e la sua problematica normalizzazione: la Lolita di Kubrick non è più Dolores, per quanto sia capricciosa e maliziosa. Non è la Dolores del romanzo, che ricatta Humbert e racimola il denaro in cambio di favori sessuali per comprarsi ninnoli e cercare di scappare da lui (come succede nel libro). Non è nemmeno la Dolores che, alla fine, si rivela “molto incinta” e scatena in Humbert una compassione quasi penosa.
La si può considerare come la Lolita per antonomasia, in grado di riportare tutte quelle caratteristiche del proprio personaggio che possono essere considerate appetibili. Una Lolita che appare più vecchia rispetto alla sua vera età, in modo da rendere la sua relazione con Humbert semplicemente come un’avventura amorosa on the road: come riporta Bosley Crowther, viene rimosso «the factor of perverted desire that is in the book and renders the passion of the hero more normal and understandable. […] Older men have often pined for younger females. This is nothing new on the screen». La Lolita di Kubrick, piuttosto che vittima degli abusi di un pedofilo, è una ragazzina troppo adulta che combina perfettamente un’aura di seduzione e innocenza.
È la provocante Lolita che lo stesso Humbert Humbert tanto agognava, il cui nome viene pronunciato con la lingua che compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo-Li-Ta.
Approfondimenti:
- Greg Jenkins, Stanley Kubrick and the Art of Adaptation: Three Novels, Three Films, ed. McFarland Publishing, 2003.
- Bosley Crowther, ‘Lolita,’ Vladimir Nabokov’s Adaptation of His Novel, in «New York Times», articolo del 14 giugno 1962.
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