
Parigi e il fuoco – I 30 anni de Gli amanti del Pont Neuf
Confesso di essermi avvicinato al cinema di Leos Carax tardi e, come spesso avviene in questi casi, dalla fine. Ricordo bene il senso di affascinante straniamento provato guardando Holy Motors, film che mi parve subito straordinario e denso di interessanti implicazioni teoriche (anche per questo l’abbiamo inserito tra i nostri film del passato decennio). Ricordo la scena del motion capture e il finale con le limousine; fu uno dei casi in cui, a visione ultimata, rimasi interdetto perché, pur capendo che fra le pieghe del film ci fosse qualcosa, non riuscivo esattamente a capire cosa (ho provato la stessa sensazione guardando Antichrist). Ritornando col tempo su Holy Motors ne ho apprezzato sempre di più la complessità immaginifica e lo stile elegante e ricercato, trovando sempre qualcosa di nuovo in questo grande racconto sul destino del cinema. Quando mi decisi a recuperare il resto della sua filmografia mi ritrovai davanti a Gli amanti del Pont Neuf, uscito trent’anni fa, e mi sembrò di trovarmi davanti a un regista completamente diverso. Cosa che, se possibile, mi fece amare questo film molto più dell’altro.

La differenza più evidente fra Holy Motors e Gli amanti del Pont Neuf è il modo radicalmente diverso in cui Carax adopera la cinepresa. Qui segue i suoi personaggi da vicino, si incolla ai loro corpi in movimento e cerca – soprattutto nelle scene dell’ubriachezza e del malessere fisico – di tradurre visivamente il senso di trasporto emozionale e amoroso che lega i due personaggi. In questi brani di grande visionarietà (penso alla straordinaria sequenza che culmina con i loro corpi microscopici che si perdono nel mare ingigantito di un marciapiede trasfigurato) le inquadrature sono spesso sporche, carnali, palpitanti. Come Holy Motors è un film teorico, così questo è soprattutto un film di corpi, di materia. Il film lo mette in chiaro sin da subito, portandoci per le strade di una Parigi notturna dove quasi per sbaglio incappiamo nel corpo sporco e nei vestiti stracciati di un senza tetto. È qui che il nostro protagonista (un mangiatore di fuoco di nome Alex) incontra Michele (una pittrice sull’orlo della cecità interpretata da una magistrale Juliette Binoche).

È attorno a questi due corpi malati e ad un amore che assume ben presto sfumature di tragedia che si consuma Gli amanti del Pont Neuf. Insieme a loro, sul ponte che dà il titolo al film e che ne costituisce l’asse portante (al contempo spina dorsale e spazio di soglia) c’è Hans, un vecchio clochard la cui routine paterna con Alex è interrotta proprio dall’arrivo di Michele. Non ci vuole troppa malizia per vedere in questo triangolo e nell’intera evoluzione narrativa del film una versione contemporanea de L’Atalante, di cui Gli amanti appare in più di un senso debitore, come testimonia il lirico brano finale. Se la conclusione del film ne pacifica in qualche modo i conflitti, adottando un registro anche formalmente molto più misurato, è soprattutto per le grandi schegge di isteria visiva che Gli amanti del Pont Neuf si è imposto nella memoria collettiva e nella storia del cinema come un manifesto del cinema visionario.

Come altri pilastri della storia del cinema, anche il film di Carax è stato visionario sin dalla sua realizzazione: costato miliardi e con alle spalle una lavorazione durata anni, non è mai riuscito a ripagare il suo ingente sforzo produttivo e in un certo senso è forse il testamento di un’intera stagione del cinema francese. C’è una scena, all’interno del film, che in questo senso mi è sempre parsa esemplare e che forse riassume il senso di autocombustione a cui l’intera esperienza del film sembra destinata. I due protagonisti passeggiano nei tunnel della metropolitana e Alex vede un avviso di ricerca affisso sui muri per ritrovare Michele e salvarla dall’imminente cecità. Tornato sul posto senza la ragazza, incomincia a strapparne uno ma, dopo essersi reso conto del loro grande numero, dà loro fuoco. Carax ci mostra la scena con un’inquadratura che sfrutta la profondità di campo per mostrare uno spaccato prospettico del tunnel metropolitano ai cui lati il volto di Michele è in fiamme.
Non so se sia un’idea fondata, ma ho sempre trovato quest’immagine sia pervasa di un certo romantico idealismo, di un’idea di cinema che si consuma per rinascere e le cui tracce continuano ad aleggiare. Se Holy Motors mi è sempre sembrato esigere dallo spettatore un’adesione intellettuale, Gli amanti del Pont Neuf mi sembra chiedere a chi guarda un’adesione sentimentale, romantica. Come uno di quegli amori impossibili che spesso lasciamo finire ma che qui, almeno per una volta, non finisce.

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