
A morte il linguaggio – Dentro ‘l mal de’ fiori di C.B. con Paiano
“Nel sogno che non sai che ti sognare / Tutto è passato senza incominciare”. Liminare prova poetica di Carmelo Bene prima della morte, penultima solo a quella Leggenda che ancora non è stata pubblicata, ‘l mal de’ fiori ha presto assunto la fama del “poema impossibile”. Pubblicato a marzo 2000 dalla Bompiani e mai più ristampato, ‘l mal de’ fiori è una delle ultime schegge dell’opus beniano, un corpo-a-corpo con la lingua, con le lingue, che nel ribaltare il titolo più celebre di Baudelaire in realtà traspone in italiano le ambizioni perdute del modernismo à la Eliot. “Noi non ci apparteniamo / E’ il mal de’ fiori / Tutto sfiorisce in questo andar ch’è star inavvenir” tra le strofe-simbolo del testo.
Ci sono poemi che scorrono limpidi come un capitello dorico, altri, invece, si avviluppano in una complessità corinzia. ‘l mal de’ fiori appartiene indubitabilmente alla seconda categoria, e proprio per questo appare notevole il tentativo compiuto dallo studioso Alessio Paiano nel suo volume, recentemente pubblicato dall’editore pugliese Kurumuny nell’ambito della collana Beniana. Dentro ‘l mal de’ fiori è significativo se non altro perché – al netto di infinite tesi di laurea dedicate al teatro, al cinema e sinanche alle apparizioni televisive di C.B. – il saggio di Paiano fa luce su una porzione raramente scandagliata della straboccante produzione beniana. Paiano, del resto, è segretario del noto Centro Studi Phoné, dedicato alla figura di C.B., oltre che poeta egli stesso: sicuramente una figura adatta, per un’impresa ermeneutica di questa portata.
Frutto di “dieci mesi di corpo a corpo con la parola” secondo la testimonianza dell’amico Giancarlo Dotto, ‘l mal de’ fiori porta alle estreme conseguenze la componente modernista e citazionista dell’opera di Bene, con un versificare barocco che spazia fra le ére. Nel proemio, Paiano riconosce “la centralità assoluta della tradizione mistica”, per quanto nel complesso il testo de ‘l mal de’ fiori sia innanzitutto la manipolazione di un dramma di Hugo, Le roi s’amuse. Nello scandagliare il penultimo poema di Bene, Paiano si rifà allo schema “linatesco” che già Simone Giorgino aveva tracciato nel suo L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene.
Un fil rouge che accompagna l’intero saggio di Paiano è quello della corrispondenza rintracciabile tra ciascuna delle sezioni del poema e una specifica arte o disciplina della tradizione occidentale, scultura, teologia, pittura o linguistica che sia; e se l’explicit pare predicare un “cestinamento definitivo del mondo organico”, prima la voce poetica passa dallo smembramento del corpo all’annichilimento tout court dell’Io, in un procedere catartico e al tempo stesso antitragico.

Il poema più famoso di Bene è inquadrato così da Paiano nella doppia luce di un’estraneità radicale rispetto al panorama poetico italiano di fine Novecento, e di una filiazione “a distanza” con i modelli più alti dell’intera tradizione occidentale. “’l mal de’ fiori irrompe nel Duemila”, scrive Paiano nelle prime pagine, “amplificando la provocazione sfacciata di un’opera che non ha pari per ampiezza, anomala anche nella forma (derivazione grottesca del poema modernista) e nel plurilinguismo estremo, nel linguaggio destrutturato che non rinuncia al senso, paradosso di un testo letto e fissato sulla pagina nel medesimo istante”.
Tra i principali ispiratori di quella che è rimasta una delle Opere Ultime di Bene, Dentro ‘l mal de’ fiori indica innanzitutto “Eliot, Dante, i provenzali, poi François Villon, Marco Aurelio, le lettere d’amore di Abelardo ed Eloisa”, santi e mistici come Teresa d’Avila fino ad arrivare a Joyce, Laforgue e Nietzsche. Nel citazionismo ossessivo eppure mascherato de ‘l mal de’ fiori, trovano spazio riferimenti anche a statue e ad opere pittoriche: non diversamente dai tableaux vivants con cui C.B. aveva impreziosito il suo Don Giovanni, lungo i versi de ‘l mal de’ fiori si viene a formare “un dialogo serrato tra il poeta e l’arte fino a lui generata, a volte per esaltarne la grandezza e altre per esprimerne il distacco in tono derisorio”.

Il titolo del (pen)ultimo poema di Bene è nitidamente un ribaltamento del celebre I Fiori del Male di Charles Baudelaire, ma il saggio di Paiano si affretta a rifiutare ogni filiazione diretta tra le due opere, all’infuori di questo capovolgimento proemiale; o, come diceva Piergiorgio Giacchè, se Baudelaire aveva composto in terza persona I Fiori del Male, Bene “in prima persona ne saggia il dolore”. In un caso o nell’altro, “la formula dell’arte beniana sarà sempre la stessa, racchiusa in quel «rovinare le rovine» già formulato in Lorenzaccio: non si tratta del disprezzo inflessibile e cieco per la tradizione letteraria” – motivo per cui C.B. aristocraticamente disprezzava gran parte delle avanguardie degli anni Sessanta – “ma di una rielaborazione profonda ed esasperata, e di qui la scelta, fin dagli esordi teatrali, di misurarsi coi grandi nomi del teatro o della letteratura”, così da “superare, tramite la «parodia sincera» di un «teatro senza spettacolo» la lezione di Antonin Artaud”. Rovina delle rovine, maceria macerante e macerantesi, C.B. approda con ‘l mal de’ fiori allo stremo della sua sperimentazione linguistica, ad una radicale continuazione su carta della ricerca teatrale sulla phoné.
Fa onore a Paiano lo sguardo riassuntivo con cui racconta i fili tematici che smuovono ‘l mal de’ fiori: piuttosto che un’accademica parafrasi del poema, lo studioso traccia un percorso ricchissimo di connessioni. ‘l mal de’ fiori diventa così una propaggine privilegiata, un prisma attraverso cui guardare l’integrità della produzione beniana, tra teatro, sedicenti romanzi, film “anti-cinema” e apparizioni televisive. Dall’altro lato, Paiano descrive ‘l mal de’ fiori come l’esordio poetico di Bene dopo una vita sul palcoscenico; indicare questo come debutto in versi di un sessantenne C.B. – o tutt’al più in Vulnerabile invulnerabilità e necrofilia in Achille, del 1994 – implica una silenziosa scelta di campo: quella di ignorare la fresca pubblicazione delle poesie giovanili di C.B., edite da Bompiani sotto il titolo di Ho sognato di vivere, che hanno suscitato un certo dibattito tra gli esegeti beniani al momento della loro uscita – non tanto per una dubbia autenticità, quanto per l’opportunità di pubblicare versi mai rivendicati in vita dal loro autore.
Proprio perché il saggio di Paiano è molto attento a riconoscere le molteplici citazioni dantesche sfociate nei versi de ‘l mal de’ fiori, e ad evidenziare i legami con altre parti pregresse dell’opera e della vita di C.B., sorprende che Dentro ‘l mal de’ fiori non rievochi anche la celebre Lectura Dantis. Quest’omelia laica, scandita da C.B. dall’alto della Torre degli Asinelli di Bologna nel 1981 in occasione del primo anniversario della strage, “decretò la definitiva confusione – in Bene e per Bene – tra teatro e poesia, attore e poeta”, come scrisse Piergiorgio Giacché in una voce Treccani poi confluita nel recente Nota Bene pubblicato sempre da Kurumuny.

Significativa invece l’attenzione tributata dal saggio di Paiano agli aspetti anche meramente grafici dell’originaria pubblicazione de ‘l mal de’ fiori, in un’edizione Bompiani mai più ristampata dal 2000, e diventata oggetto di collezione e di culto tra gli afecionados di C.B. Illuminante in questo senso una testimonianza di Elisabetta Sgarbi ripresa dal Panta dedicato a Bene: “Carmelo seguiva un suo percorso mentale cercando di ottenere (da me editore) che le parti minime dei suoi libri avessero una corrispondenza con la struttura della sua ‘voce’ attoriale”, ragion per cui “anche lo spazio fra le parole” indicato da Bene “doveva essere rispettato rigorosamente, e lo stesso vale per gli occhielli, per la pagina bianca che li segue immediatamente, per l’impostazione dei corpi, dei caratteri”.
Essere uno straniero, ma nella propria lingua. Quest’espressione, tratta dal saggio dedicato dal filosofo francese Gilles Deleuze al teatro di Bene, fa da ritornello per tutto il saggio di Paiano, e dà il titolo a uno dei capitoli centrali del lavoro. Suggestivi e di fine lucidità analitica risultano allora i passaggi in cui Paiano riconosce dei riferimenti precisi ma nascosti ad alcuni concetti-cardine del pensiero deleuziano, come quello di Aion, in mezzo ai versi de ‘l mal de’ fiori. Se Dante, o Joyce, o Eliot, sono grandi nomi della tradizione letteraria occidentale, ampiamente omaggiati da C.B. sin dall’inizio della sua attività scenica, Gilles Deleuze è un segnavia più inaspettato, nel mare di citazioni che costellano ‘l mal de’ fiori. Aver saputo, a pochi anni dalla morte del filosofo, tradurre alcuni suoi concetti e suggestioni al verso dalla prosa, è uno dei molti meriti de ‘l mal de’ fiori.

“Un testo che offre una sconfinata libertà interpretativa”. Così aveva definito Enrico Terrinoni il Finnegans Wake di James Joyce, autore carissimo a C.B., mentre assieme ad Enrico Pedone stava compiendo l’operazione, a lungo giudicata impossibile, di tradurre dall’inglese l’ultimo romanzo dello scrittore dell’Ulisse. Questa stessa libertà interpretativa Paiano la ritrova ne ‘l mal de’ fiori, e da qui sgorga il suo saggio. Saggio che riesce a mantenersi nell’equilibrio delicatissimo tra passione interpretativa e precisione accademica, laddove fin troppo saggi e tesi di laurea su Bene sono sprofondati nelle note a piè di pagine, in un accademismo puerile per un personaggio del suo calibro eversivo.
“Per capire un poeta, un artista – a meno che questo non sia soltanto un attore – ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista” è una delle tante frasi di Bene diventate citazioni di pubblico dominio. Dentro ‘l mal de’ fiori di Paiano si avvicina con buona approssimazione a dimostrarla.
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