
Il folle volo – Intervista a Miguel Angel Valdivia
Miguel Angel Valdivia (Città del Messico, 1979), dopo essersi laureato alle Belle Arti di Parigi in pittura e disegno ha preso un Master in Visual Communication al Royal College of Art di Londra. Ha lavorato per quattro anni al Royal College of Art come visiting lecturer, organizzando corsi, workshop, eventi e presentazioni. Editore e curatore della rivista di disegno Le Petit Néant e curatore e creatore della pagina Le Sabbie di Marte, dedicata alle arti visive. Artista, disegnatore, fumettista, ha pubblicato Il divino inciampare, la sua prima graphic novel, con la casa editrice Coconino Press nel 2019. Nel settembre 2022 il suo libro è uscito in Francia e in Belgio con la casa editrice Fremok. Liberamente ispirato a A Boccaperta, una sceneggiatura irrealizzata di Carmelo Bene sulla vita di san Giuseppe da Copertino, prefato da Goffredo Fofi, Il divino inciampare è un’opera di profonda suggestione visiva e di rara severità compositiva.
Come nasce il tuo percorso da disegnatore?
Possiamo dire che il mio percorso da disegnatore nasce quando nasco io, nel senso che mi ricordo di aver sempre disegnato. Diciamo che, invece di smettere, ho semplicemente continuato. A diciassette anni, un anno prima della maturità, non so come, convinsi mia madre che volevo studiare Belle Arti a Parigi, che nella mia vita volevo essere un “artista”. Ho quindi frequentato l’Accademia di Belle Arti nel campo pittura e disegno per cinque anni. E poi, fortunatamente, come ho detto, non ho smesso: ho disegnato, ho dipinto, e ho fatto le tante cose che si possono fare disegnando e dipingendo. Solo gradualmente e recentemente ho capito meglio il senso del mio lavoro. Disegnare è sempre stata un’attività molto spontanea, non riesco mai davvero né a spingermi né a forzarmi. Se lo faccio, non funziona alla stessa maniera. Quello che davvero mi piace, e lo dico per farti capire meglio il mio percorso, è tutto ciò che stimola la mia mente e la mia immaginazione. Non riesco a fare per molto tempo la stessa cosa. Al centro di tutto però direi che c’è il disegno, il tratto.
Quali sono i tuoi principali artisti visivi o autori di graphic novel di riferimento?
Per quanto riguarda gli artisti visivi e gli autori di graphic novel di riferimento penso che il modo più sincero per risponderti sia il seguente. Innanzitutto premetto che, certo, anche io ho una lista di artisti che mi hanno influenzato in diversi momenti della vita. Basquiat, Keith Haring, Bacon, Dalì, Frida Kalho, Rivera, Pettibon e tanti altri. Ma in realtà mi rendo conto che più o meno tutto quello che vedo mi influenza visivamente. Davvero, tutto: film, videogiochi, spezzoni televisivi, serie tv e via dicendo. Solo che certe cose mi rimangono di più, mi “abitano” più a lungo. Ad esempio i film. Lynch, Cronenberg, Kubrick. Kurosawa, Fritz Lang, Fellini, i fratelli Coen e tanti altri. Artisti “visivi” anche loro, non meno dei rispettivi direttori di fotografia. E anche i fotografi: Mario Giacomelli ad esempio, è stato un importante punto di riferimento per il libro Il divino inciampare.

Sul versante specifico degli autori di graphic novel chi citeresti invece?
I miei autori di riferimento per il fumetto sono stati molti. Quelli ormai “classici” tipo Muñoz, Mattotti, Pratt, Breccia, Burns, Frank Miller, Bilal, Moebius, Taniguchi, ma anche e soprattutto una serie di autori e fumetti sconosciuti al pubblico italiano ma che sono stati per me fondamentali. Io vivevo a Parigi e leggevo con grandissimo interesse, da bambino, gli albi di Jano e gli albi di Frank Margerin, che pubblicava la casa editrice Les Humanoides Associés: in italiano sarebbe gli umanoidi associati, che titolo! Avevano due personaggi: un ratto chiamato Kebra e un rockabilly di nome Lucien. Erano autori indipendenti ma con un grande seguito, per quanto di nicchia. Le loro storie erano storie di periferia, di disagio giovanile, di “sesso, droga e rock & roll“. Furono un grandissimo impatto sulla mia mente in formazione. Ma non devo dimenticare i primo grande amore, letto proprio da piccolo: Little Nemo di Windsor McKay, forse il più grande! Anche Akira di Katsushiro Otomo scoperto a dieci anni è stato una vera e propria bomba per la mia mente. Recentemente ho scoperto tanti autori nuovi e soprattutto tanti modi diversi di fare ed immaginare il fumetto, e mi sento sempre più portato a credere che la stessa definizione di “fumetto” è oggi è da ampliare a magari da abbandonare.
Come hai scoperto A Boccaperta di Carmelo Bene?
Un grande amico che conosceva bene il mio lavoro mi ha consigliato di leggerlo quando gli avevo chiesto di suggerirmi una storia per un fumetto. Io disegnavo spesso Vergini della Guadalupe messicane e credo che sia per questa ragione che aveva pensato a me. Il santo di cui parla Boccaperta aveva un rapporto di devozione particolare e paradossale con una Madonna dipinta. Forse questo è stato l’elemento “scatenante”?
Da cosa è nata l’idea di trarre una graphic novel da un testo così sui generis come la sceneggiatura-trattamento di A Boccaperta, e quanto tempo ti ha richiesto la sua realizzazione?
Io ero proprio alla ricerca di una storia per un fumetto quando ho avuto fra le mani per la prima volta Boccaperta. Poi credo che sia stata una sfida personale. In effetti era comunque una storia così strana, così speciale… Non avevo idea di come realizzarla, volevo solo fare un fumetto. Ma non avevo neanche idea di cosa volesse dire “fare un fumetto”. E in effetti da quel momento sono passati quasi dodici anni prima che il libro arrivasse alla pubblicazione. È stato il tempo necessario per capire sia che storia volevo raccontare sia il come raccontarla. Quindi una lunga gestazione e un paio di anni effettivi per realizzare i disegni contenuti nel libro. Spero di metterci di meno per il prossimo!

La realizzazione di A Boccaperta, che sarebbe dovuto essere il sesto film di C.B., venne bloccata anche dall’impossibilità di mettere in pratica la rivoluzione tecnica che Bene voleva imporre per riprendere cinematograficamente le estasi volanti del santo, ovvero quella di girare con più macchine da presa e proiettare il film su due schermi. Come ti sei interrogato sulle difficoltà specifiche di rappresentare, peraltro con disegni statici, il volo estatico di san Giuseppe da Copertino?
Mi sono interrogato molto e forse troppo sul come rappresentare il volo del santo. In effetti la staticità insita al disegno non aiuta, tanto più che ho sempre avvertito come la mia mano, il mio tratto fosse molto pesante, una caratteristica aumentava la staticità del disegno. Ho poi scoperto una piccola piuma di beccaccia, uno strumento leggero e delicato che poteva essere utilizzato solo con grande attenzione. Questo esercizio ha reso la mia mano più morbida e di conseguenza il mio tratto più leggero. Ma chiaramente il volo non lo puoi rappresentare “veramente”. Ci si scontra anche con il limite di quello che si può “realmente” rappresentare. Il volo disegnato non sarà mai il volo vero. Sarà sempre e comunque rappresentazione, finzione. Come la madonna rappresentata nel quadro non è la Madonna, ma la sua rappresentazione, una delle tante. Continuo a trovare i voli del mio santo un po’ statici, intendiamoci… Ma ben più leggeri che all’inizio!
Il risultato finale della tua graphic novel prende spunto da A Boccaperta e dalla vita di San Giovanni da Copertino, ma inevitabilmente si distacca dalla lettera della sceneggiatura del film irrealizzato; c’è, se vogliamo, una sorta di essenzializzazione. Come hai lavorato alla progressione delle scene?
L’essenzializzazione di cui parli è in effetti un elemento chiave di questo lavoro e in generale del mio lavoro, o comunque della direzione che ha preso il mio lavoro da tempo. È anche un elemento fondamentale del lavoro di molti artisti che seguo e di cui ammiro il lavoro, che sia nel cinema, nel teatro, nella musica, nelle arti plastiche e nel fumetto. Credo sia il risultato naturale di una ricerca, il semplificare la forma, liberandola da quello che non è necessario, che è superfluo, che è pura estetica. Ed è anche il processo che ho fatto io con Il divino Inciampare. Mi sono dovuto liberare da una serie di elementi inutili. All’inizio volevo studiare come si vestivano nel 1600, così come l’architettura dell’epoca. Ma ero fuori strada. Tutti questi elementi non sono inutili ma non sono necessari per raccontare una storia. Il bianco e nero, che io adoro proprio per questa qualità essenziale mi ha anche aiutato molto. Ridendo e scherzando, ho dovuto fare un po’ quello che faceva San Giuseppe per volare. Mi sono liberato di zavorre inutili, ma non fino a dimenticarmi del mio proprio peso ahimè… E un altro peso da cui mi sono dovuto liberare è stato proprio Carmelo Bene con la sua eredità. Solo quando ho fatto “mia” questa storia ho iniziato capire come potevo lavorare sul Boccaperta.

In alcune delle tavole della graphic novel i personaggi, e in particolare un papa che non può non ricordare Innocenzo X, vengono “baconizzati”: i loro volti sembrano liquefarsi e mostrificarsi proprio come in una tela del pittore inglese Francis Bacon. Si sa che Bacon, assieme a Velázquez e pochi altri, era uno degli artisti più amati da Carmelo Bene, ma da cosa è nata la suggestione di inserire citazioni così precise all’immaginario baconiano nella tua graphic novel?
Sapevo dell’amore di Bene per Bacon, ma io ero già fan di Bacon sin da piccolo, quando a nove anni avevo visto una sua grande mostra al MOMA. Parlando di essenzializzazione, Bacon ha molto da insegnare, è indubbio. Le sue architetture, i corpi, il movimento, le atmosfere. Con poco riesce a creare tanto. È un pittore molto teatrale, molto essenziale. Il liquefarsi e il “mostrificarsi” sono fasi di trasformazioni fisiche. L’inquisitore, ad esempio (tratto da un quadro di Bacon), non ha una faccia ben definita, la sua faccia cambia, muta continuamente. Sono personaggi un po’ mostruosi, corrotti dal potere, deformati da esso, come diceva bene Goffredo Fofi nella sua introduzione. Il mio libro è pieno di citazioni, di omaggi. È un modo per ringraziare, per includere quelle che sono le mie “fonti”. Ma ti direi che un’artista come Roland Topor, in fin dei conti, è presente quanto lo è Francis Bacon.
Editorialmente, come è nata la pubblicazione per Fandango – Coconino Press e chi ti ha affiancato nel processo di finalizzazione e messa a punto dei testi che accompagnano l’opera visiva?
Ho avuto modo di entrare in contatto con Ratigher che sin da subito ha amato la storia e i disegni. All’epoca avevo un’idea – la storia era ancora da definire – e una decina di disegni. Lui ha fatto qualcosa di molto speciale e raro: ha creduto che quel materiale potesse diventare un fumetto. Sembra ovvio adesso ma non lo era, ti assicuro. Quindi la mia fortuna è stata proprio incontrarlo per concretizzare quello che sarebbe diventato il mio primo libro, e unico per adesso. Mi ha anche seguito in una serie di momenti chiave della realizzazione. Ci siamo sempre trovati molto bene. I testi del mio libro li hanno scritti cyop&kaf con cui sono amico da tanto tempo. Tante volte avevamo parlato del volume, e delle mie paturnie rispetto a esso. Importante è dire che i testi che accompagnano ed aprono i capitoli del libro sono stati scritti a posteriori, quando il lavoro era già terminato. Sono testi molto belli, poetici. E il loro scopo è quello di dare qualcosa in più, ma non troppo.

Da poco è stata pubblicata anche in Francia una nuova edizione de Il divino inciampare, con alcune nuove tavole e un intero capitolo in più, non presente nella versione italiana. Cosa racconta questo nuovo capitolo?
La versione francese del mio libro è uscita con la casa editrice Frémok. Ora, quello che caratterizza i libri di Fremok è l’essere a cavallo tra fumetto e arte. I loro libri infatti sembrano spesso più libri d’arte che fumetti. Ma sono appunto “a cavallo” quindi esplorano quel territorio di mezzo sperimentando con il linguaggio stesso del fumetto. Come raccontare con le immagini? Come raccontare in assenza di testo? Cosa è il fumetto? Altra loro caratteristica è quella di trasformare sempre le edizioni originali, per farne qualcosa di inedito. Quindi da subito mi hanno chiesto se avessi qualche scena rimasta nel cassetto e a dire il vero ne avevo. Ne ho tante a esser sincero. Mi si è anche fatto notare che nel mio libro era poca o assente la presenza femminile. Il che se ci si pensa è naturale poiché è una storia di chiesa e di frati… Ma in realtà c’erano un paio di scene che avrei voluto fare e che poi non avevo fatto. In una c’era la mamma di Giuseppe Desa, nell’altra una ragazza che serviva da modella per un quadro della madonna. Insomma queste due aggiunte arricchiscono il mio libro, e non poco.
In vita, Carmelo Bene era acclamato in Francia almeno tanto quanto in Italia, e alcuni dei suoi migliori amici nonché studiosi furono intellettuali del calibro di Jean-Paul Manganaro, Gilles Deleuze e Pierre Klossowski; memorabile anche il suo incontro, silenziosissimo, con Jacques Lacan, nei camerini di un teatro. Per quello che hai potuto vedere in occasione dell’edizione francese della tua graphic novel, quanto forte è in Francia, tuttora, la memoria di Bene?
Devo essere sincero: per adesso questo non ho ancora avuto tempo di capirlo. Te lo saprò dire tra qualche tempo spero. Per ora il libro è uscito da poco più di un mese e in Francia c’è una tale quantità di fumetti che non tutti riescono a trovare una strada verso critica o pubblico. Sicuramente bisognerà trovare un modo per introdurlo ai lettori francesi, diversi da quelli italiani. Vediamo se arriverà fra le mani di qualche intellettuale amante di Bene, chissà?

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