
10 cortometraggi da Concorto Film Festival 2021
La ventesima edizione di Concorto Film Festival si terrà a Pontenure (PC) e a Piacenza dal 21 al 28 agosto. Birdmen Magazine, media partner anche quest’anno, ha selezionato per voi 10 cortometraggi tra i 48 in concorso.
di Maria Francesca Mortati e Luca Mannella
Bambirak, Zamarin Wahdat (Germania, Usa)

Dagli occhi di una bambina di otto anni, Kati, afghana, ragazzina ribelle che attende il padre, Faruk, nel bagagliaio del camioncino bianco delle consegne – che potrebbe appartenere a qualsiasi multinazionale, non importa quale –, Zamarin Wahdat racconta una storia di razzismo e marginalizzazione ai danni di un padre single e di una bambina “straniera”, estranea. Bambirak, che in persiano significa “libellula”, grazie alla prospettiva infantile su una realtà spietata, favoleggia, immagina, si fa trasportare dalle immagini degli uccelli in volo viste da Kati durante i tragitti cronometrati, subito ribaltate, dall’altra parte della strada, dai colorati quanto immobili container pieni di merce; la dolcezza di una caramella offerta da Faruk alla figlia non basta a coprire l’amaro in bocca lasciato dall’episodio-chiave del film: mentre Kati osserva una libellula in bilico su un petalo in un negozio di fiori, due bambini, figli della proprietaria, la accusano di furto in un accesso di inconsapevole, e per questo più violento, razzismo.
Pa Vend (Displaced), Samir Karahoda (Kosovo, Albania)

Un tavolo da ping-pong può essere metafora di una condizione esistenziale e politica: questo sembra voler dire Samir Karahoda con Displaced. Un tavolo da ping-pong che non trova un luogo, uno spazio stabile in cui stare, come i protagonisti dai volti inespressivi (perché c’è poco da esprimere) che lo trasportano su un trattore, a piedi, da una sala per matrimoni ad un garage, da una strada innevata ad una palestra abbandonata. Del resto nel Kosovo di oggi, dopo la guerra del 1998-1999, lo smarrimento, l’instabilità, la precarietà, pervadono ogni cosa: non rimangono nemmeno le porte, i muri, solo le fondamenta delle case da cui ripartire. Karahoda lancia un messaggio di speranza con il suo cortometraggio, perché in fondo il protagonista, dalla Germania, dove aveva un lavoro fisso, è tornato in un deserto dove l’unico rumore è lo sbattere persistente di una pallina dalla racchetta al tavolo.
Severen pol (North pole), Marija Apcevska (Serbia, Macedonia)

Come recita bene la descrizione del film, l’essenza di North pole sono i campi da calcio nebbiosi, gli spogliatoi affollati da adolescenti e dai loro umori – e aggiungo –, condutture dell’aria di palestre scolastiche, scale in ferro, vie e paesaggi suburbani. Questo ambiente privato di qualsiasi umanità fa da sfondo all’amore schizofrenico di Margo per Matej: lo rifiuta, viene presa in giro dalle amiche, lo chiama, poi lo spoglia forzosamente. La schizofrenia della civiltà periferica, di nessuno, di cui Margo sembra essere il prodotto perfetto, penetra anche nell’atto amoroso, nella ricerca disperata di un’identità attraverso la perdita della verginità. La schizofrenia impone anche il finale: prima lo svago, il gioco spensierato con alcuni bambini, dopo ancora la tristezza, l’incomprensione stampata sul volto di una bravissima Antonija Belazelkoska.
Somleng reatrey (Sound of the night), Chanrado Sok e Kongkea Vann (Cambogia)

Fin dalle prime inquadrature si capisce come Sound of the night voglia seguire un approccio documentaristico nel mostrare il girovagare di due fratelli che sopravvivono vendendo noodles ai bordi delle strade su un carretto ambulante. Anche la macchina da presa, in un certo senso, nel seguire i movimenti di una vecchia moto e il ticchettio di un rudimentale strumento musicale (il “suono della notte”), deambula per i vicoli pieni di sporcizia, nei viali dove oltre agli inaccessibili grattacieli qualche prostituta richiama l’attenzione dei passanti. Sono tre, di fatto, le scene drammatiche, effettivamente recitate. Se la prima mostra un atto di forza del boss del quartiere nei confronti del fratello maggiore, dalle altre due si ricava il significato ultimo del film del duo Sok-Vann: i dialoghi tra il fratello maggiore e la sorella, tra il fratello maggiore e il fratello minore si interrogano sulle prospettive future in una società che non ne ha. Il film si chiude con una domanda che forse non ha risposta: “cosa può farti guadagnare dei soldi?”. Sok-Vann ne accennano una: prendere un battello e cambiare sponda, direzione.
Wenn ich tanze, wackelt die Welt (When I dance, the Earth trembles), Otto Reuschel (Germania, Italia)

In quello che forse è uno dei migliori film in concorso al Concorto Film Festival il confine tra realtà e finzione, tra regista e personaggio, tra commedia e alterco, tra corpo e macchina da presa svanisce al ritmo di monologhi e dialoghi sulle possibilità di vivere a Berlino, sulle contraddizioni economiche ed edilizie del quartiere Kreuzberg, al ritmo di ribaltamenti e slittamenti narrativi, di situazioni, personaggi, discorsi, senza cesure e tagli. Questo tour inarrestabile ha come filo rosso il tema del ballo, che si esprime completamente nella sequenza centrale di una danza animalesca sotto un classico cavalcavia berlinese. When I dance, the Earth trembles, che appare quasi come un video registrato dal telefono, indaga rocambolescamente i contrasti di un quartiere in via di riqualificazione, dove segni di resistenza si manifestano in un dj set improvvisato per la strada, in un monologo surreale di un padre di famiglia la cui casa verrà presto trasformata in un condominio privato.
I am afraid to forget your face, Sameh Alla (Egitto, Francia)

Una voce femminile, tremante, lascia un messaggio vocale destinato alla persona amata. Intanto il film ci mostra solo uno schermo nero, non c’è dato di vedere – almeno per ora – chi pronuncia quelle poche frasi che parlano di lontananza e di mancanza. I due amanti sono lontani da mesi. “Mi manchi e mi mancherai”, così si conclude il messaggio. Ad ascoltarlo dall’altro capo del telefono c’è Adam (Seif Hemeda). Di grande impatto emotivo la rottura della quarta parete al centro del cortometraggio di Sameh Alla, quando Adam decide di travestirsi da donna indossando un burqa per incontrare la sua amata per l’ultima volta. Il film prosegue la narrazione nel silenzio del protagonista, immerso e costretto a confrontarsi con i rumori della città, il vociare, i pianti, le litanie. Vincitore della Palma d’Oro per il miglior cortometraggio al Festival di Cannes, I am afraid to forget your face mette in scena l’impossibilità del ricongiungimento.
Sestre (Sisters), Katarina Rešek (Slovenia)

Sina, Mihrije e Jasna sono tre giovani donne, che la regista Katarina Rešek definisce come “modern day virđinas”. Le virđinas sono vergini giurate, donne che nella tradizione balcanica si trovavano a dover incarnare ruoli di genere considerati maschili per sopperire all’assenza degli uomini. Per le tre protagoniste del film, lo status di virđinas è una scelta consapevole, una reazione di rifiuto alle norme di genere patriarcali. A tal fine, si autoimpongono dieci comandamenti: un atto deliberato per sfuggire all’imposizione esterna di ruoli legati alla presenza maschile (fidanzata, moglie, madre). Vincitore all’ultima edizione del Festival di Clermont-Ferrand, Sestre mette al centro la sorellanza, come suggerisce il titolo del corto. Da questo punto di vista, è particolarmente significativa la presenza e il ruolo che ricopre – pur nella sua breve apparizione – Fantasy, una donna transgender.
Maalbeek, Ismaël Joffroy Chandoutis (Francia)

Tre mesi dopo gli attacchi terroristici a Bruxelles, avvenuti il 22 marzo 2016, Sabine Borgignons si risveglia dal coma. È sopravvissuta all’esplosione nella stazione della metropolitana Maalbeek, ma non ricorda niente di quanto le è accaduto. Il tentativo di Sabine di ricostruire il pezzo mancante della sua memoria, de remettre des images là ou il y en a pas, viene mostrato dal documentario Maalbeek di Ismaël Joffroy Chandoutis, nel quale la riluttanza della memoria si scontra con la natura ipermediatizzata dell’evento. In parte film collage, in parte video arte sperimentale, Maalbeek segue Sabine nella ricerca dei suoi ricordi. La donna si rivede persino nelle riprese delle videocamere di sorveglianza, ma quasi fatica a riconoscersi. Si rivela una ricerca vana: né l’abbondanza di immagini dai media né le testimonianze altrui consentono alla donna di non vedersi come estranea alla situazione, che si chiede se la memoria che le sembra di recuperare sia in realtà frutto delle immagini stesse.
Son of Sodom, Theo Montoya (Colombia)

Nell’agosto del 2017, il regista Theo Montoya sceglie il ventunenne Camilo Najar come protagonista per il suo primo film di finzione. Una settimana dopo, il giovane muore per overdose di eroina. Camilo era conosciuto sui social media e nella scena queer di Medellín, in Colombia, come “Son of Sodom”: da qui il titolo del progetto di Montoya, che si trasforma in un documentario. Oltre a intervistare amici e amanti, il regista si serve delle riprese del casting dello stesso Camilo. Il ragazzo parla apertamente della sua sessualità, del suo rapporto con le droghe, del suo futuro. Della morte Camilo non ha paura, gli interessa vivere il qui-e-ora e pensa che morirà giovane. È difficile non cadere nella tentazione di romanticizzare la trasgressione, ma in realtà Son of Sodom è soprattutto una riflessione sui giovani di Medellìn, sulla loro pulsione di morte e sulla città stessa.
Hľadanie spoločnej kompozície (Mutual composition), Peter Podolský (Slovacchia)

Nonostante il genere diaristico e confessionale scelto da Peter Podolský sia ormai un cliché nei cortometraggi degli ultimi anni, il regista slovacco riesce con grande abilità, umana più che registica, a far trasparire con sincerità il rapporto controverso e autobiografico di un figlio omosessuale con una madre di formazione cattolica. Davanti alla videocamera, che pare una videocamera di famiglia dentro cui si conservano le immagini dell’infanzia, la madre del regista, e in un colpo di scena il regista stesso, confessano i propri sogni, le proprie debolezze, i rimpianti del passato. Anche la multimedialità del cortometraggio, dentro cui Podolský inserisce fotografie scattate durante le riprese, facilita lo spettatore ad entrare in un universo intimo, contraddittorio, in parte doloroso.
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