
Quando ballo, la terra trema – Intervista al regista Otto Lazić-Reuschel
Dopo aver inserito Quando ballo, la terra trema (Wenn ich tanze, wackelt die Welt) tra i 10 miglior film in concorso al Concorto Film Festival 2021, abbiamo incontrato il regista Otto Lazić-Reuschel e gli abbiamo fatto qualche domanda sul suo cortometraggio, vincitore della Menzione speciale della Giuria giovani.
di Luca Mannella e Maria Francesca Mortati
Vorremo iniziare chiedendoti della genesi di Quando ballo, la terra trema: perché hai scelto Berlino, e il suo quartiere Kreuzberg, come sfondo del film?
Mi sono trasferito a Berlino attorno al 2011 e ci ho vissuto fino all’inizio del 2020. Ho sempre fatto film in maniera amatoriale, appassionata, senza grandi mezzi ma semplicemente con tanta voglia. A Berlino mi è venuta l’idea di voler raccontare questo corto già qualche anno fa, ma durante il primo sopralluogo ho scoperto che la metro sarebbe stata chiusa per tutta l’estate. Ho annullato il progetto senza sapere quando avrei potuto farlo, ma l’idea non se n’è mai andata. Fin quando ho deciso di iscrivermi alla Zelig, scuola di documentario a Bolzano. Una volta presa questa decisione, ho capito che me ne sarei andato via da Berlino per tre anni. Adesso o mai più, ho pensato. Mi piaceva anche lasciare la mia firma, il mio segno su Berlino, la mia interpretazione e il mio modo di averla vissuta.
Quanto entra Berlino nel film? Per esempio l’uso degli spazi, le lingue, le persone, gli incontri, le situazioni…
È solo grazie a Berlino che ho potuto fare questo film. La scenografia è Berlino, giriamo a Kreuzberg. Kreuzberg è il mio quartiere, da quando ho iniziato a vivere a Berlino mi muovevo in questo luogo e negli ultimi anni ci ho anche vissuto. Il film è nato a Berlino, è un ritratto della mia esperienza e di quella di tante persone: dal parlare arabo, inglese, spagnolo, greco, tedesco, al fare notti folli, con tutto quello che comporta, concerti per strada, gente con divani, scarpe appese, gente incappucciata che corre, momenti surreali. Tutte le immagini che ho visto negli anni ho cercato di riportarle all’interno del film, quello che succede sono tutte cose che ho visto con i miei occhi.
Nel film il confine tra documentario e finzione è sfumato. Ci vuoi parlare di questa tua scelta?
La forma cinematografica che mi è più vicina è il documentario. Questo film è stato il mio primo tentativo di lanciarmi nella finzione, di avere protagonisti attori, di lavorare con un piano sequenza e tutto ciò che comporta a livello organizzativo e logistico. Con un piano sequenza, anche se è tutto controllato, organizzato e preparato, il tempo è reale e in quel tempo possono succedere cose e situazioni reali. Gli attori e la troupe erano comunque preparati a prendere tutto quello che sarebbe accaduto, senza fermarsi, fino alla conclusione del giro. Con “giro” intendo che il film è circolare, inizia e finisce nello stesso luogo con delle piccole differenze. Quando metti così tanti elementi e aggiungi così tante cose nella storia, a posteriori noti come il pubblico stesso sia confuso nel distinguere tra finzione e realtà. Mi piace che non si riesca bene a distinguere cosa sia pensato o meno. Un esempio è l’uomo ubriaco sulla metro, una situazione completamente casuale. È comparso sui binari della metro urlando e cantando. Ho subito notato che avrebbe potuto essere un personaggio scomodo, quindi sono andato a parlarci e a tenerlo vicino a me così che gli altri potessero continuare il loro giro senza grandi problemi. Alla fine però è entrato a far parte delle riprese.

Questa oscillazione tra finzione e realtà permea tutto il film e i suoi personaggi. Gli attori interpretano loro stessi e allo stesso tempo impersonano qualcuno che non sono loro.
I personaggi sono loro stessi e immedesimano qualcun altro. Non ho nemmeno cambiato i nomi, non ho alterato le loro identità, anzi ho chiesto di esprimerle e di portare fuori quello che avevano da dire all’interno di questa storia, di queste tematiche, di questa atmosfera. Mi sono fatto aiutare da loro per portare storie e narrazioni vere, personali, intime, riflessioni reali della persona davanti alla macchina da presa. Potrebbe essere anche un film-intervista visto da un’ottica documentaria. Del resto io camminavo con loro, gli facevo domande e loro rispondevano.
Il film trasmette un’atmosfera familiare, distesa…
Credo che tutta questa Berlino, questa atmosfera del film, venga fuori anche grazie al legame che unisce tutto il gruppo. Alle nostre spalle abbiamo tanti momenti vissuti insieme. Il legame che ci unisce e il modo di lavorare tra di noi è anche la forza del film.
Il film ha una struttura schematica, ad anello, ma al suo interno il piano sequenza lo rende vorticoso, rocambolesco. Sembra essere diviso in tre momenti. Qual è il loro significato?
La struttura del film è circolare, ci sono tre protagonisti: passiamo da uno all’altro e la camera è un quarto protagonista che gironzola e incontra amici, conoscenti e sconosciuti. I tre momenti sono le tre “fasi” di Berlino con cui tante persone – me compreso- si scontrano. Il primo personaggio rappresenta la fase iniziale dell’arrivo a Berlino, dove sei esterrefatto e in estasi per la bellissima città, la sua energia; mostra la difficoltà ad integrarsi nella società, non parlare la lingua, non sentirsi a proprio agio. C’è questa sensazione quando esci fuori da un club dopo una serata, magari la mattina di un lunedì, e incontri tutte le persone pronte e ordinate che vanno a lavorare e ti senti a disagio. La ragazza greca ha alle spalle quattro-cinque anni passati a Berlino, ha fatto il suo percorso, è cresciuta, ma è arrivata a un bivio in cui si chiede se rimanere o andarsene. Trovare casa a Berlino è un grande dilemma, il coinquilino l’ha buttata fuori di casa, è sempre con la valigia, zero sicurezza, zero stabilità. Queste sono le sue preoccupazioni per il futuro. Con il terzo personaggio volevo dare un punto di vista locale del tedesco stereotipo, lavoratore, burbero, incazzato, proletario, che ha i suoi problemi economici, a casa, però sente di dover salvare il mondo perché ha una coscienza politica. Ma appunto non può. Il suo monologo paradossale sullo sciopero ne è un esempio: contro chi devo scioperare, contro me stesso?

Invece la questione del ballo esce in tutte e tre le sezioni e dà anche il titolo al corto…
Sì, Quando ballo, la terra trema. Non ho mai pensato di fare un film sul ballo, sul concetto di ballo. Il pezzo centrale di ballo era voluto fin dall’inizio, faceva parte dell’idea di avere anche questo modo di esprimersi, soprattutto perché Manu è una ballerina professionista. La maschera per esempio l’ha costruita un amico e se si cerca Antilope sul mio canale Vimeo esce un video con la stessa maschera fatto tra amici. Nel mio subconscio se penso a Berlino mi dico “c’est clair”: siamo a Berlino, si balla dal lunedì al venerdì. Però nei contenuti ho lavorato sui monologhi e dialoghi del tunisino, della greca e del tedesco, non propriamente sul ballo. Il titolo è frutto di un lavoro collettivo: qualcuno ha suggerito di usare una battuta del film e alla fine è venuta fuori questa frase ad effetto, con molteplici significati. Il messaggio del film è che il mondo berlinese che abbiamo condiviso e attraversato, nonostante le conoscenze, gli incontri, l’apparenza di aver vissuto tantissime cose, senza un centro, una nostra linea, una visione, rischia di riportarti al punto di partenza. È vero, in venti minuti hai vissuto un sacco di situazioni, ma alla fine del film ti ritrovi lo stesso edificio da dove sei partito. Per dare questa percezione diversa di uno stesso luogo dove ci sono stati intanto dei cambiamenti, inneschi e reazioni, ho utilizzato la differenza di formato: non è un caso che la prima immagine dell’edificio sia in 4:3 e l’ultima in 16:9.
E non è un caso forse che il formato viene cambiato proprio nella scena liberatoria del film, la scena della danza animalesca sotto il cavalcavia…
Questa danza è in parte per la ballerina, che doveva avere un suo modo di esprimersi diverso dalla parola degli uomini, in parte era voluto che uscisse questo momento surreale, assurdo e inaspettato di lei che trova una maschera per strada e parte a ballare in una sequenza onirica, quasi in un mondo parallelo dove cambia il suono (ogni movimento produce un suono dentro gli altri rumori cittadini) e dove si allarga progressivamente lo schermo.

È interessante come la prima e l’ultima parte siano dei monologhi: il primo un monologo quasi comico, il secondo invece potrebbe essere un pamphlet o manifesto politico sui modi e problemi, come la riqualificazione e privatizzazione di condomini, di vivere la città. Vuoi lanciare anche un messaggio politico?
Sono cresciuto nel bisogno di far politica dal basso, con la gente, nelle piazze, nelle strade, di prendere una posizione chiara. Attraverso il cinema e il documentario posso raccontare e portare tutta questa coscienza e queste storie di cui abbiamo bisogno. Oltretutto a Berlino ho frequentato molto la scena militante e attivista. Non per caso nel film c’è gente incappucciata che scappa per la strada. Il terzo monologo era ancora più politico, ma è stato leggermente ridimensionato, reso più diretto e semplice.
Per concludere potresti parlarci di tuoi eventuali progetti futuri?
Per la Zelig, la scuola del documentario di Bolzano, sto lavorando sul film di diploma, il sequel di Riski, un cortometraggio del 2017 girato a Melilla, città autonoma spagnola sulla costa orientale dell’Africa del Nord. Con Mohammed, il protagonista, sono sempre rimasto in contatto e vorrei girare la seconda parte in Spagna. Poi c’è un altro documentario a cui sto pensando da molti anni su un ragazzo kossovaro. Vorrei raccontare i legami tra Kosovo e UE, tra Kosovo e Onu, e soprattutto la diaspora kossovara verso l’Europa occidentale.

Otto Lazić-Reuschel è nato e cresciuto a Trieste. Dopo un anno in Messico, dove ha girato il suo primo documentario Qué pasa?(2011), si è trasferito a Berlino, dove vive da nove anni. Ha collaborato con RomaTrial nell’ambito del progetto “Balkan Onions”. In questa occasione ha contribuito al documentario con regia collettiva In Between (2015), sulla situazione di albanesi, rom e serbi dopo la guerra del Kosovo. Il suo lavoro più recente, Riski (2017), racconta la storia di un gruppo di giovani a Melilla, un’enclave spagnola sulla costa mediterranea del Nordafrica, con un confine terrestre col Marocco. Riski è stato selezionato, tra gli altri, al Trieste Film Festival, MiradasDoc, Queens World Film Festival, Bellaria Film Festival e ha vinto vari premi in tutto il mondo. Al momento lavora sul suo nuovo documentario creativo “Drajcici. A village at the edge of Europe”, ancora in fase di pre-produzione ma già selezionato per quattro laboratori internazionali di sviluppo – Balkan Documentary Center, IDFA Academy, Docs Barcelona and Balkan Film Market – Pitch Balkan. Parallelamente ai suoi progetti documentaristici, ha diretto il suo primo cortometraggio Quando ballo, la terra trema, un piano sequenza ambientato a Berlino e prodotto dalla Zero Stress Production in collaborazione con Movik Filmproduktion. Da novembre 2019 frequenta la ZELIG – School for Documentary, Television and New Media in Bolzano, Italy.
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