
Alice nel Paese delle Meraviglie – Un sogno formativo | Disney+ Revisited
Con il rilascio di Disney+ e la messa a disposizione di tutti gli abbonati di un vastissimo catalogo di prodotti marchiati Disney, i Classici d’animazione senza tempo che hanno accompagnato diverse generazioni di spettatori si trovano ora immersi nell’eterno presente delle piattaforme digitali. Con Disney+ Revisited analizziamo che effetto fanno oggi questi film, a cui viene restituita una nuova vita commerciale.
«Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni» scrive William Shakespeare nel IV atto de La Tempesta. E a volte, anche nel sogno più delirante e labirintico è possibile ritrovare una propria dimensione capace di ridefinire il mondo che ci circonda: almeno per l’Alice di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò è proprio così, persino nella sua controparte Disney.

Spavaldi e psichedelici, i viaggi onirici dei due romanzi di Lewis Carroll affascinano Walt Disney sin dall’infanzia, al punto tale da costituire una cifra stilistica presente in differenti pellicole da lui prodotte. Basti pensare alla serie delle Alice Comedies (1923 – 1927) con protagonista Virginia Davis, o al celebre cortometraggio di Topolino Thru the Mirror (1936). Tuttavia, la rappresentazione disneyana per eccellenza di quel mondo bizzarro è datata 1951: il tredicesimo classico Disney Alice nel Paese delle Meraviglie rappresenta, insieme a Fantasia (1940), il film più surrealista e visionario della casa di Topolino.

Distribuito per la prima volta il 26 luglio 1951, il film non riscuote l’entusiasmo del pubblico e della critica. Il rimprovero più grande concerne l’evidente soppressione della filosofia di Carroll legata a dialoghi, monologhi e giochi di parole. Espunta da questa peculiarità, l’avventura dell’Alice disneyana nel Paese delle Meraviglie si concretizza in un sogno bislacco e contradditorio che, accostando i deliri della bimba al viaggio vogleriano dell’eroe, sembra far leva sul carattere formativo di tale esperienza.

Ad avvalorare quest’ultima suggestione è la reinterpretazione disneyana della perdita corporea della protagonista. Diminuendo il numero delle metamorfosi, Disney trasforma la perdita dei confini corporei da smarrimento psicologico a difformità verso quel mondo ideale decantato nelle prime scene del film. Troppo piccola per raggiungere la chiave sul tavolino e troppo grande per stare nella casa del Bianconiglio, il paese delle Meraviglie aiuta Alice a definire la sua appartenenza al mondo umano, al punto tale da ricercare disperatamente la strada di casa già prima del processo finale. Posta continuamente di fronte a paradossi, metafore e simboli, la ribellione della bambina inglese verso il mondo reale e adulto costituisce una rappresentazione emotiva dell’età pre-adolescenziale necessaria per capire l’importanza di un percorso di crescita.

Per una piena riuscita di questo processo, di rilevante importanza sono i personaggi “co-primari” che arricchiscono lo stravagante Paese delle Meraviglie. Antropomorfi e bizzarri, molti di essi vengono introdotti in maniera antipatica (i gemelli Pinco Panco e Panco Pinco, la Regina di Cuori), oppure si rivelano insopportabili a seguito di una gioiosa accoglienza (i fiori, il Cappellaio Matto e il Leprotto Bisestile). Nessun alleato, nessuna amicizia capace di contribuire attivamente alla salvezza di Alice: i personaggi secondari non fanno altro che accentuare quel senso di incubo e di angoscia che tanto caratterizza quel mondo e le sue atmosfere.

Ancora una volta però, il character design si rivela il punto di forza della major: abbondando di linee tonde e tonalità cromatiche sgargianti, gli animatori donano a questi personaggi un riconoscibile grado di iconicità che però rimane ascritto nel panorama disneyano. A differenza delle precedenti pellicole Biancaneve e i Sette Nani (1937) e Cenerentola (1950), la versione disneyana di questi caratteri non conquista il ruolo di modello di riferimento dei romanzi di Carroll nell’immaginario comune.

Dalla successiva produzione legata alla casa di Topolino – i live action Alice in Wonderland (2010) e Alice Through the Looking Glass (2016) di Tim Burton e la Once Upon a Time (2011 – 2018) con il suo spin-off Once Upon a Time in Wonderland (2013 – 2014) – alle pellicole di altri registi, il Paese delle Meraviglie del classico Disney costituisce sì un punto di partenza, eppure l’intrinseco carattere formativo didascalico rende la pellicola un unicum troppo distante sia dalle tinte gotiche della nuova produzione disneyana, sia dall’aderenza alle celebri illustrazioni di Tenniel.

Eppure, a 70 anni dal suo debutto, il tredicesimo classico di Walt Disney rappresenta ancora oggi una pellicola dal gusto sofisticato, capace di dialogare con lo spettatore di differenti generazioni. Infatti, se la la drug-culture degli anni ’60 e ’70 ne ha esaltato l’intento psichedelico, Alice nel Paese delle Meraviglie dovrebbe essere ricordato come un sogno formativo, capace di dare forma alle sfumature più complesse e segrete del Bildungsroman. Un viaggio in un mondo dis-umano per ritrovare l’umanità più vera.

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