
Il Dumbo di Burton. Umana fantasia o realtà fantastica?
Dal 28 marzo 2019 è presente nelle sale cinematografiche italiane Dumbo – il live action dell’omonimo classico Disney del 1941 Dumbo – L’elefante voltante –, che si staglia in alto nella classifica dei più attesi film Disney dell’anno.
1919, Stati Uniti d’America: il circo dei fratelli Medici è in evidente crisi, lo staff si è dimezzato. Holt Ferrier – famosa star del gruppo, reduce dalla guerra – ritorna dalla sua famiglia consapevole di aver perso un braccio e inconsapevole di aver perduto anche altro. È venuta a mancare la moglie, il suo lavoro di acrobata con i cavalli, la fama: Molly e Joe – i suoi due figli – sono l’unica certezza rimastogli. Maximilian Medici, però, direttore della compagnia circense, gli offre un nuovo lavoro: occuparsi di un’elefantessa indiana in dolce attesa, una dolce attesa che cambierà la vita di tutti. Il piccolo elefante – dalle orecchie un po’ esagerate – verrà deriso dal pubblico, il quale gli affibbierà il nome “Dumbo” – che nel suo senso dispregiativo indica “Stupido” – ma Molly e Joe, al contrario di tutti, vi si affezioneranno. I due bambini, inoltre, scopriranno che le grandi orecchie del cucciolo – grazie all’aiuto di una piccola piuma – gli permettono di librarsi in volo. Questa capacità, però, porterà tanti guai quando il futuro imprenditore Vandevere ne verrà a conoscenza.

«Ce li ho i finti mostri, non mi serve un mostro in vista!»
Ovviamente, il film si trova ad essere intriso di citazioni dal classico del 1941, ma viene anche sviato su nuove basi: certo, il dilemma sulla mostruosità non vi è a mancare – dato che è un dato di famiglia: c’è a chi manca la mamma, a chi un fratello, a chi un braccio, a chi una coda da sirena – ma in primo piano si staglia la dimensione del desiderio e, poi, quella del sogno. Generalmente l’artista è la persona considerata più libera dagli obblighi sociali, ma a volte anche questa sorta di libertà può essere una prigione.
«Calmati non va da nessuna parte, è bloccato qui come noi.»

La solitudine della perdita si staglia nella mente di tutti i personaggi; la drammaticità apparente è fuorviata dalla scarsa trama di fondo, probabilmente dovuta ad una scelta registica “quasi obbligata” a non dover distanziarsi troppo dall’originale. Ma, nonostante il suo approccio un po’ cupo e oscuro, il musetto ingenuo di Dumbo continua a trasmettere un non so che di commovente.
«Per me vuole stare da solo come papà.»
«Nessuno vuole stare da solo.»
L’Isola dell’incubo di Dreamland è simbolo della perdita materna e fa di Milly e Dumbo una cosa sola. Appare allora evidente che, dietro il film di Burton ci sia l’E.T. di Spielberg: legati intimamente dallo stesso sentire, come fu per Eliot e per il suo amico extraterrestre, bambina e creatura volano in cielo con la stessa urgenza e per lo stesso fine.

«I cuccioli riconoscono la loro mamma; tra l’altro si dice che gli elefanti non dimenticano!»

Si nota, però, che il film – girato tutto in studio, senza nessuna ripresa all’aperto – “si sia fin troppo lasciato prendere la mano” dagli effetti speciali. Molti animali del film sembrano usciti direttamente da un hard-disk, e Dumbo finisce per interagire poco con gli attori umani: non simpatizza per nulla, o quasi, con Collette (Eva Green); con Holt (Colin Farrell) non stipula nessun legame affettivo profondo… A differenza di quanto accade nel suo predecessore, qui il film, forse, si concentra troppo sugli umani e sulle loro storie, finendo per dimenticarsi di far simpatizzare Dumbo con tutti gli altri esseri presenti sulla scena.
L’unica cosa che riesce a dar voce a un’essenza emotiva sono gli occhi – di un color azzurro intenso, limpido – dell’animaletto: probabilmente caricati anch’essi di un’umanità fin troppo esplicita, ma capaci di dar espressione all’animo guerriero del protagonista.
L’insicurezza che si continua a evincere fino al finale è una delle caratteristiche che ritornano sempre nei personaggi di Tim: basti pensare ad Edward mani di forbice, dove il giovane Depp nella sua interpretazione, pare incapace di distinguere il bene dal male, nella sua fanciullezza più pura.
«Lei possiede qualcosa di grande nella sua vita, lo sa cos’ha Max?»
«No…»
«Il mistero.»
Insomma, la rivisitazione di questo classico Disney è fatta da una sceneggiatura quasi basica – meno intrecci che nei capelli di un bambino – e lineare, che però va in profondità, giù giù giù. Tutti usano Dumbo, tutti lo vogliono e vogliono le sue orecchie capaci di volare e creare meraviglia, ma il destino de “l’altro” – di quello che non è “normale” – è sempre quello di esser appeso a un filo, sempre in bilico, sempre pronto ad esser ripudiato. È importante che nella vita si sappia riconoscere chi odia possedere quelle orecchie e chi, invece, in maniera del tutto consapevole e cattiva, ama averle ed usarle. Nella vita dobbiamo saper scappare dai secondi come si scappa da un incubo (del resto negli incubi si annida l’immagine della mamma brutalmente strappata al figlio). Mentre con i primi bisogna aver pazienza.
«Gli hai fatto imparare a volare, pensi che ci rinuncerebbe?»
«Si, per riavere la sua mamma.»

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